Anno V del Regno Eterno- And the story ends

Share Button

– Qui andrà benissimo- disse a sé stesso il giorno in cui arrivò.
Una torre abbandonata su un promontorio. Il mare tutt’intorno, con il suo ruggito lento e inquieto. Inquieto come lui, con la sua colpa, i suoi rimorsi, i delitti di cui si era macchiato in lunghi anni e da cui non poteva scappare, neanche in un posto lontano come quello. Non poteva sperare di dimenticarsi di tutto, anzi doveva farne tesoro e lezione. Quello che portava sulla schiena, quell’angelo senza ormai più le ali, con il suo perdono gli aveva indicato la via della redenzione. Le sue arti non sarebbero più servite per dare dolore, per uccidere gli innocenti, ma per proteggerli, per toglierli dal giogo che opprimeva le loro vite da troppo tempo. E l’unico modo che Jorge Desmortes aveva per rimembrare in ogni istante che la sua anima era corrotta dal peccato era concedersi un ultimo atto di barbara violenza. Quel corpo bianco, immobile, con un paio di monconi sanguinolenti sulle spalle, sarebbe stato eterno monito ai suoi occhi; l’avrebbe conservato come altare in un luogo raggiungibile solo dai suoi occhi, ben visibile, appeso ancora come un prigioniero. Gli serviva, quello scempio; uno solo per ricordare i mille e più che aveva commesso, per non dimenticare mai che era stato lo Psicarca Bianco. Ed ogni tanto, contemplando quel volto pallido, che nel giro di qualche anno divenne uno scheletro bianco e slavato, aveva l’impressione che recuperasse vita e luce, e guardandolo con quegli occhi chiari e dolcemente tristi gli sussurrasse segreti incomprensibili.
Eppure quella notte lo udì distintamente. Erano passati più di trent’anni, ma quella voce malinconica e flautata, quel soffio di vento tiepido che spazzava via le sue difese, con la sua delicatezza e la sua saggezza, lo riconobbe subito, tanto che finì seduto sul letto. Poche parole che gli rimbombarono nella testa, gli percorsero il dorso con un brivido impregnando ogni cellula del suo essere, come una consapevolezza improvvisa.
– Tutto questo sta per finire. 

*    *    *

Erano passati un paio di giri di clessidra da quando il sole si era andato a nascondere in fondo al mare, lasciando dietro di sé una notte chiara e stellata. Noctulis se ne stava in piedi sulla spiaggia, scalzo, il bordo della veste lambito dalle onde; assaporava il profumo della salsedine mischiato agli aromi floreali che gli giungevano dalla foresta, lasciando il suo pensiero libero di vagare, riposato e disteso dopo una dura giornata di studio. Fosse stato per lui, ormai ci si sarebbe consumato in quell’opera che così tanto lo appagava; aveva raggiunto i trent’anni, e aveva trovato la sua occupazione giornaliera nell’affinamento e nell’analisi dell’arte arcana, e ci avrebbe dedicato ogni istante ed ogni anno di vita che gli rimaneva. Forse era contento così: si sentiva quasi appagato,  quasi soddisfatto, e la sua voglia di avventura pareva placata e soddisfatta da quella vita tranquilla, che scorreva lenta senza dargli preoccupazioni. Un nuovo tipo di esistenza, più intimo e riservato, scevro delle acerbe pulsioni della gioventù, solo lui e la sua magia. Il suo corpo, poi, negli ultimi anni si stava dimostrando più delicato del previsto, e la sua corporatura si era fata segaligna, l’incarnato pallido e la sua stessa andatura era leggermente più curva. Ridendo, si diceva spesso che sarebbe divenuto come il vecchio Jorge, un ammasso di ossa e capelli bianchi tenuti su solo dai quattro venti.
– Ancora qui?- lo distrasse la voce del suo maestro, che giungeva in quel momento sulla spiaggia. Sul viso aveva un’enigmatica espressione di cordoglio, e gli occhi erano velati da un sottile strato di lacrime. Noctulis rimase sul vago, sospettoso.
– Meditavo un altro po’… piuttosto, non eri andato a letto, te?
L’anziano mentore alzò le spalle, trattenendo una smorfia di dolore a stento. Aveva superato da poco gli ottant’anni, e gli acciacchi dell’età erano ormai evidenti e indelebili.
– Non riuscivo a dormire, e così ho pensato di farti un po’ di compagnia…
Si mise lentamente a sedere sulla sabbia, lasciandola scorrere tra le dita sottili e allungando le gambe. Noctulis, allo stesso modo, vedendo il gesto del mentore si accovacciò raggomitolando le gambe al petto e cingendole tra le braccia. Il respiro del vento era debole e soffuso, una melodia lontana e nostalgica. Rimasero in silenzio ad ascoltarlo, osservando l’incessante movimento delle onde sulla risacca, i loro riccioli scherzosi e i loro lampi argentati. Fu Jorge a parlare per primo, all’improvviso, con voce ferma e greve.
– Davvero ti basta questo?
La domanda rimase sospesa nell’aria per qualche istante, come se entrambi la stessero esaminando in tutte le sue sfumature. Il più giovane dei due taceva, meditabondo, contemplando i vasti orizzonti che si aprivano innanzi a lui; sul volto si andava dipingendo una nota di disappunto evidente, come un verme che lo rodeva dall’interno.
– Io non vivrò ancora a lungo, lo so- continuò Jorge con una punta di dolorosa consapevolezza. – E tu che farai, dopo? Rimarrai qui, in riva al mare, a studiare per tutta l’eternità? Oppure cercherai anche tu un allievo, come ho fatto io, e rivivrai la mia storia dall’inizio?
Un secondo silenzio si interpose violentemente nella conversazione, dirompente. Solo il mare poteva udire il suono di mille pensieri che si formavano e si scontravano tra loro, spargendo nell’aria frammenti di dubbio e incertezza. Le parole dell’anziano incantatore ripresero a cadere  una dopo l’altra come pesanti macigni.
– Questo non è posto per te. Il mondo, quello abitato, intendo, quello è fatto per te. Perché tu possa incontrare persone che ti possano far cambiare e insegnarti qualcosa di nuovo, tutte quelle cose che un vecchio stupido come me non ti ha saputo dare. Pensi davvero che rimanendo qui tu possa in qualche modo divenire una persona migliore di quella che sei adesso?
Gli occhi del discepolo scrutavano la linea scura che divideva acqua e cielo, una sottile striscia bianca tra due ali di velluto nero, su cui combattevano i suoi sogni, le sue aspirazioni, la sua curiosità, i suoi ideali. Aveva faticato a convincersi che la Torre del Mare sarebbe stato il suo futuro, ed era giunto alla conclusione che non l’avrebbe abbandonata; ed adesso quel pensiero si era infranto al primo assalto, alle prime avvisaglie di un domani differente dallo studio fine a sé stesso. La sua ancora era stata tagliata, ed adesso le onde del destino lo sballottavano a destra e a manca senza ritegno, senza rispetto. Poteva lasciarsi alle spalle tutti questi anni e viaggiare in terre sconosciute, conoscere persone nuove; la sua conoscenza sarebbe arrivata a livelli che mai avrebbe potuto raggiungere rimanendo lì. Oh, ma chi se ne fregava della conoscenza! Avrebbe vissuto, vissuto e non sopravvissuto! Non sarebbe più marcito dal’interno, come stava già iniziando a fare! Sarebbe stato libero di fare quello che voleva!
– Che dire- ridacchiò Noctulis, il volto verso la luna, – rimarrò qui il tempo necessario a rimettere in sesto le trappole sulla spiaggia e poi inizierò a pensarci seriamente…
Un lampo freddo passò attraverso la schiena di Jorge. Si voltò di scatto verso l’allievo, gli occhi sbarrati, con un’espressione di puro terrore che gli deformava il viso.
– Le trappole? Le trappole sono scattate?
Dopo che il giovane, spaventato, scosse debolmente la testa in cenno di assenso, il vecchio non attese un istante e balzò in piedi con agilità sorprendente per la sua età, guardandosi intorno allarmato. Vagliava gli alberi, le dune, ogni singola ombra o anfratto nel terrore di poter vedere quelli di cui temeva il ritorno. Certi individui sanno essere vendicativi, e loro avevano rivolto uno sgarbo alla razza più vendicativa del mondo. E in quel giorno, sembrava che si fossero finalmente decisi.
– CORRI!- intimò Jorge con quanto fiato aveva in corpo, preparandosi a recitare un sortilegio. Noctulis non comprese, ma colpito dalla paura del maestro non se lo fece certo ripetere; se il maestro percepiva un tale pericolo, non c’era altro da fare che obbedirgli. Arrancando sulla sabbia, si alzò ed iniziò a correre verso la porta della torre, quando all’improvviso due frecce sibilarono ad una spanna dalla sua testa; la sorpresa fu tale che cadde nuovamente a terra, a pancia in giù, e finalmente comprese anche lui la gravità della situazione. Silenti come ombre e allo stesso modo tenebrose, oltre una dozzina di figure aveva circondato il promontorio sul quale sorgeva la loro abitazione, tagliandoli fuori da qualsiasi riparo. Pelle nera come ossidiana, armature che sembravano intrecciati con la notte stessa, occhi maligni e iniqui; guerrieri di stirpe drow, elfi ripudiati dalla luce, che accolgono i peggiori demoni nei loro cuori malsani, e che volevano la morte dei due umani sopra ogni altra cosa. Le corde dei loro archi erano nuovamente tese, e le punte delle loro frecce adesso erano dirette tutte verso Jorge. Scoccarono; Noctulis vide il suo mentore terminare il sortilegio ed innalzare una barriera di sabbia innanzi a sé, un muro che eruppe dal suolo rombando e fermando la corsa della maggior parte degli strali. Un paio di essi, però, riuscirono a superare l’ostacolo e mentre uno si perdeva nel buio l’alto si conficcava in profondità nella spalla sinistra dell’anziano incantatore, che cadde violentemente al suolo con un lamento.
-MAESTRO!- urlò il giovane. Incurante dell’avvertimento precedente si rialzò e si gettò con quanta foga aveva in corpo verso Jorge, che giaceva al suolo con il respiro pesante e la veste già zuppa di sangue. Sentì come un morso rabbioso al polpaccio, all’improvviso, e la sua corsa si interruppe bruscamente a pochi passi dal suo obbiettivo, cadendo pesantemente a faccia in giù; stringendo i denti, vide che una freccia gli passava completamente lo stinco da parte a parte, con la punta metallica che riluceva insanguinata.
– Ti avevo detto di scappare…- mormorò irato Jorge nella direzione dell’allievo. Il volto era mortalmente pallido, imperlato di sudore, mentre le labbra assumevano una tinta cianotica. Faceva fatica persino a tenere gli occhi aperti, eppure non poteva non sentirsi parimenti colpevole e orgoglioso per il gesto del suo discepolo, ritornato per salvarlo. Solo che adesso erano circondati dalle figure che si erano fatte loro intorno, come oscuri rapaci pronti a sbranarli, e chissà cosa poteva salvarli…
– Che gesto amorevole non c’è che dire…- li apostrofò una voce velenosamente sensuale, a pochi passi da loro. Una fanciulla se ne stava in piedi, divertita, a rimirarli come due oggetti bizzarri; aveva la pelle color dell’ossidiana, lunghi capelli bianchi e lisci che ricadevano sulle spalle nude, il corpo mortalmente sinuoso ed esile, le forme a malapena contenute in una veste scura e discinta ricamata con motivi simili a scaglie. Li guardava dal profondo dei suoi occhi viola e infidi, quasi come un serpente che ipnotizza la sua preda. Sì, li stava catturando allo stesso modo.
– Sono loro, sorella…- mugugnò qualcuno alle sue spalle; era uno degli elfi scuri, con addosso i leggeri abiti da esploratore, eppure il volto era irriconoscibile a causa di una brutta ustione contrassegnata in più punti da riflessi metallici. “Acciaio fuso”, pensò Jorge con più di una punta di paura, ripensando all’assassino che Noctulis aveva sfregiato presso il Forte dello Sparviero. Erano lì per vendicarsi, dunque?
La ragazza colpì con forza il suo compagno sul volto, a mano aperta, facendolo subito allontanare uggiolante, e si limitò a imprecare a bassa voce. Subito dopo il suo volto sembrò recuperare quel sorriso perfettamente malvagio, e lo rivolse alle sue vittime distese sul ventre nella sabbia; quei capelli color latte erano dardi diretti al cuore, quei denti bianchissimi erano quelli di una belva affamata.
– La vendetta è solo un pretesto per divertirmi con lo Psicarca Bianco, nient’altro… vedere cosa sa fare se messo alle strette…
Puntò un dito sottile verso Noctulis, prima che qualcuno potesse compiere anche un solo gesto. Subito il giovane sentì il corpo pervaso da un dolore indicibile, insopportabile, come se mille aghi lo stessero passando da parte a parte straziandogli le carni; si inarcò sulla schiena, urlando contro la notte inutilmente, completamente sopraffatto.
– Vediamo cosa fa lo Psicarca Bianco se si tocca il suo cucciolo…- sibilò infidamente l’elfa.
Jorge gli gettò uno sguardo rabbiosamente impotente. Era vecchio, indolenzito, aveva il corpo pieno di veleno, una freccia conficcata addosso e una spalla rotta; cosa poteva fare lui per fermare quello scempio?
“Tutto questo sta per finire”.
Le parole dell’angelo gli risalirono violentemente alla memoria, come un’onda di mareggiata che lo riempì e gli dette forza. Era vero, aveva ragione, il suo tempo era scaduto; aveva fatto fin troppo di quella sua vita, era l’ora di cedere il passo. Per lui era l’ora, non certo per il suo allievo.
L’urto che l’anziano stregone lasciò partire dalla sua mano colse la ragazza drow impreparata, scagliandola al suolo in un istante; nello stesso momento, il corpo di Noctulis smise di tremare e contorcersi, giacendo ansante al suolo, vivo. Ora era Jorge ad alzarsi, a fatica, pallido come uno spettro, con il sapore del suo stesso sangue in bocca; una figura diafana, in piedi per pura volontà, che recitava il suo ultimo, poderoso sortilegio a mani levate verso il cielo, circondato da una debole luminescenza azzurra. I sicari drow videro il bersaglio e scoccarono subito le frecce dai loro archi; una, due, cinque frecce si infilarono nelle carni dello Psicarca Bianco, macchiando la veste candida di un fiume di lacrime vermiglie. Allo stesso modo, da ogni ferita partiva un dardo di energia scarlatta, un raggio di luce sanguigna che trapassava da parte a parte chi aveva mandato a segno il proprio colpo. Ogni assassino si vedeva tornare indietro il dolore che aveva provocato, e già più della metà dei drow si riversò defunta a terra. Quelli rimasti, titubanti, si contavano ormai in una mano, e Jorge avrebbe usato ogni goccia della sua vita per abbatterli e per dare un’opportunità di salvezza al suo discepolo…
– Piantala o lui muore- lo apostrofò la voce della ragazza, al suo fianco. Il vecchio si voltò di scattò, e in mezzo al sangue che gli offuscava la vista poté vedere l’elfa impugnata a tenere un pugnale puntato alla gola di Noctulis. Il ragazzo era a malapena cosciente, stordito, e si dibatteva debolmente ad occhi chiusi. L’elfa sogghignò maliziosamente, nel momento in cui si accorse che Jorge stava perdendo la presa sul suo incantesimo. Lo sapeva benissimo che non era vero, che i drow li avrebbero trucidati entrambi se lui smetteva di recitare il suo incantamento, ma il dolore del corpo ormai morente, la vecchiaia, la paura per la sorte del suo discepolo, lo sopraffecero in un solo istante in cui perse la concentrazione. L’elfo con l’ustione metallica sul viso balenò subito innanzi a lui, a spada sguainata; i due si guardarono negli occhi per un tempo che parve infinito, per il tempo necessario per entrambi che quello che stavano per fare sarebbe stato per loro fatale.
La lama si conficcò profondamente nel ventre di Jorge, sino a spuntare  colma di sangue dalla schiena; contemporaneamente, l’intera figura del vecchio maestro brillò sino a coprire il bagliore di tutte le stelle di quella notte mortale, e un lampo azzurro investì in pieno il sicario scaraventandolo in mezzo alla spiaggia, già morto prima di toccare terra. Jorge si portò una mano alla pancia ed estrasse interamente la spada, gettandola al suolo; strano, non provava dolore. Non vedeva più niente, se non Noctulis innanzi a lui. Il suo allievo, stordito ricambiava il suo sguardo, eppure i suoi occhi erano velati di lacrime; mentre la sua stessa vita era minacciata si preoccupava ancora per il suo mentore.
– Figlio mio…- sussurrò, così debolmente che neanche le sue orecchie poterono udire quelle parole. Le sue ultime parole. Jorge Desmortes cadde in ginocchio, sorridendo, pallido come la luna in cielo, con rose scarlatte che sbocciavano su tutta la veste; mentre cadeva riverso a terra vide un angelo bianco a fianco del suo allievo, inginocchiato, intento anch’egli a guardarli con gentilezza e compassione, le ali candide a coprirlo e proteggerlo. Dopo quello, il suo mondo divenne buio.
Noctulis aveva assistito a tutta la scena in silenzio, incapace di proferire alcunché; le sue emozioni lo avevano vinto, lo avevano incatenato a terra, capace solo di piangere. Aveva paura, quanta mai ne aveva avuta in vita sua, e il suo maestro, Jorge, la persona che più aveva contato per lui, adesso non era che un ricordo. Non c’era nient’altro da fare che rassegnarsi e…
– Alzati- gli intimò l’elfa, togliendogli il coltello dalla gola e spostandosi. – Questa carneficina non ha più senso, ormai.
Non ci poteva credere. Vide i quattro assassini sopravvissuti schierarsi alle spalle della giovane elfa, che adesso lo scrutava assorta. Noctulis si alzò debolmente in piedi, incredulo, impaurito, infreddolito, indolenzito. Aveva visto troppo, e voleva andarsene, lontano da quel dolore, da quella miseria, da quella violenza…
– Hai degli occhi magnifici, ragazzo, limpidi…- sussurrò l’elfa maliziosamente. In altre occasioni Noctulis avrebbe indugiato su quelle forme seducenti, su quel corpo attraente, ma non ci poteva riuscire adesso, in alcun modo.
Il buio calò innanzi ai suoi occhi; l’ultima cosa che intravide fu l’elfa che scattò in avanti, la mano protesa verso il suo volto, poi sentì il contatto della pelle fredda e liscia della drow contro il suo viso, sopra i suoi occhi. Sentì un calore strano, crescente, che diveniva lentamente insopportabile…
-… talmente limpidi da volerli chiudere per sempre!- rise malignamente la strega.
Le fiamme divamparono violentemente dalla sua mano per estendersi al volto di Noctulis. Urlò, urlò come mai aveva urlato; si sentiva ardere, sentiva le sue carni sciogliersi sotto quella fiamma, uno strazio indicibile. I suoi lunghi capelli andarono ad alimentare quell’inferno, trasformando la sua testa in una torcia, e sentiva che ormai le dita dell’elfa potevano affondare nel suo viso come nella cera. Provava a dibattersi, inutilmente, a cercare di recitare il più piccolo degli incantesimi, ma non c’era modo che si potesse salvare, che potesse fare alcunché. Era la fine, in un mare di fuoco bollente che stava incendiando la sua testa.
– Ora basta giocare, però.
La voce melliflua dell’elfa, e poi il sollievo. Il fresco all’improvviso. Il freddo, anzi. Tra le costole. Sopra il cuore. Nel cuore. Freddo come può essere solo il metallo. Freddo come il bacio delle stelle lontane. Freddo come un pugnale che si infila nel tuo costato e ti strappa via la vita. Freddo come il mare in cui cadi, senza più forze, finito, sconfitto, un burattino a cui sono stati tagliati i fili. Freddo, come lasciare il mondo a quel modo, senza salutare nessuno, senza combattere. Freddo come morire a trent’anni con tutti i tuoi sogni inespressi. Freddo, come l’ultimo istante che ti passa fra le dita.
E finalmente, non senti più freddo.

*    *    *
  
Era disteso, lo poteva sentire, ma non sapeva dove. Il suo stesso corpo, le sensazioni che riceveva erano indistinte, ovattate, soffuse. Non si era mai sentito così riposato, e allo stesso tempo spossato. Aprì gli occhi lentamente, e si puntellò sulle mani per alzarsi a sedere. Quello che vide non lo lasciò stupito; sentiva di non riuscire a stupirsi.
Intorno a lui, solo una nebbia lattiginosa, fittissima, che mandava dei bagliori perlacei; lo avvolgeva totalmente, e lo stesso suolo sembrava composto della materia impalpabile delle nuvole e dei sogni. Non riusciva neanche a capire fino a dove riusciva a vedere, tanto la nebbia era densa e non riusciva a calcolare le distanze. E poi il silenzio, un silenzio che non era solo assenza di rumore, era un’entità vera e propria, come se mai un suono avesse solcato quell’aria immobile e fredda. E ancora, non riusciva a stupirsi di quell’ambiente innaturale. Dopotutto, lui doveva essere lì, lo sapeva; gli rimaneva solo oscuro dov’era il "lì", perchè e come c’era arrivato. Ecco, quelle domande iniziarono già a muovere un complicato bagaglio di emozioni, di dubbio, di curiosità, di spavento. Era tutto normale, ma non trovava chiarezza in quella normalità, non l’accettava logicamente.
– Esiti?
La voce arrivò all’improvviso, da nessun punto preciso, come se arrivasse dalla nebbia stessa. Era una voce femminile, talmente dolce e carezzevole che Noctulis sentì un brivido caldo e piacevole attraversargli la schiena.
– Di cosa hai paura ancora, Noctulis? Non devi averne…- proseguì la voce, teneramente. C’era qualcosa di più in quella voce, che lo inquietava e lo spiazzava, qualcosa che non sentiva da tanto tempo, una sensazione di familiarità, di vicinanza, come la voce di qualcuno che lo conoscesse da tanto tempo. Il cuore gli si gonfiò di malinconica nostalgia, di un amore struggente e antico, sopito e sommerso nel senso di colpa ma mai dimenticato del tutto, come fuoco sotto la cenere. Scandì poche parole, intontito e spaesato.
– … mamma… mamma, sei tu?
La voce tacque un istante solo, poi la nebbia si schiuse debolmente, lasciando il passo a una visione angelica. In piedi davanti a lui, le mani strette sul grembo, bella e solare, Layla Xandauter, sua madre. I capelli scuri erano sciolti sulle spalle, il volto sottile aveva un’espressione serena e consapevolmente triste, il corpo esile stava immobile, stretto in una lunga veste bianca fluente. Lo guardava melanconicamente, e i suoi movimenti erano talmente lenti e compassati da sembrare immobile.
– Se vuoi che io sia tua madre, allora lo sarò, Noctulis.
Un lampo nei suoi occhi, nella sua testa. Vide una mano nera che gli stringeva il viso, il calore che gli consumava la carne, e poi un singolo brivido freddo nel costato, il morso impudente dell’acciaio. Acquistò parte dei suoi ricordi, e la comprensione fu tale da spingerlo al suolo senza fiato. Lui era morto. Vicino alla Torre, lui era morto. Anche il suo maestro era morto, ma quello che più lo preoccupava era di essere morto lui stesso. Lo stomaco gli si chiuse orribilmente, e ogni stilla di calore che ancora a malapena percepiva dal suo corpo se ne andò definitivamente. Riusciva a borbottare a malapena qualcosa, senza alzare gli occhi da terra.
– Tu chi sei?
Alzò gli occhi da terra, per vedere la figura che si era avvicinata a pochi passi da lui. Adesso che la osservava meglio, capì che non era sua madre, né poteva essere alcuna donna del mondo mortale. Aveva una bellezza perfetta, senza tracce di imperfezioni, tale da esulare persino dall’immaginario dei più grandi artisti o dei più fantasiosi sognatori. I suoi occhi erano scuri pozzi di tenebra, eppure emanavano un tepore umano, una tristezza che poteva essere conosciuta solo da chi possedeva un cuore sin troppo sensibile. I capelli corvini sembravano mossi da un vento inesistente, e l’intera vesta veniva scossa allo stesso modo. D’incanto, tra le dita le si materializzò una lunga alabarda perlacea, intessuta nella luce soffusa di quel luogo, su cui brillavano alcune gemme lucenti da far male. Adesso, la donna lo guardava dall’alto in basso, con un vago sorriso sulle labbra sottili e pallide.
– Io sono tua madre. Sono la madre di tutti i viventi, in quanto sono l’unica che li accompagna dal momento in cui nascono a quando se ne vanno. Sono Colei che vive tra la luce e l’ombra, Colei che tesse ogni singola trama delle vite terrene. Mi sono stati dati molti nomi e molti aspetti, e anche questa non è che una mia manifestazione.
Si fermò un istante, come pesando le parole.
– Io sono la Morte.
Noctulis non riusciva a fiatare. Aveva la bocca secca e impastata, i suoi arti si rifiutavano di muoversi, le gambe non accettarono neanche di provare a sorreggerlo. Era sopraffatto da quella visione, da quel pensiero che non lo abbandonava. E come poteva abbandonarlo? Era morto!
– Seguimi, adesso- gli disse la donna, mestamente.
Seguire la Morte? E dove? E cosa voleva dire? Era la fine di tutto, questo? Niente più Noctulis Desmortes? I suoi giorni erano già finiti, proprio ora che pensava a una nuova vita? I suoi sogni spezzati a soli trent’anni? Non c’era davvero altro da fare o da dire, se non constatare la chiusura del sipario, e vedere che tutti gli attori sono usciti e il pubblico se ne sta andando? Finisce tutto così?
– Non mi stai seguendo- constatò tristemente la Morte, guardandolo ancora a terra, incapace di muoversi. Noctulis aveva il fiatone per lo spavento, la sua spavalderia l’aveva totalmente abbandonato lasciando dietro di sé un guscio indifeso di paure.
– Io non ti seguo- sputò fuori tutto d’un botto. La Morte lo guardò con un vago sorriso.
– Nessuno vuole, piccolo mio- sussurrò dolcemente, come fa solo una madre amorevole verso il figlio a letto. – Nessuno vuole, ma quando capiscono che non c’è alternativa tutti mi seguono, Noctulis. È la legge di questo mondo. In molti hanno provato a non seguirmi, a scapparmi inutilmente, ma alla fine hanno compreso che da qui non si fugge.
Con un largo gesto, indicò la nebbia intorno a lei.
– Questo è il mio regno, e la tua futura casa.
A questo era destinato, dunque, a perdersi nella nebbia e a divenire un fantasma tra i fantasmi, una nuvola tra le nuvole, una goccia d’acqua nell’immensità del mare. Lui era uno dei tanti. E poi c’era più di una cosa che lo turbava, una fra tutte.
– Ci sono persone che non voglio ancora incontrare.
La Morte alzò un sopracciglio interessata a quelle parole, dipingendo sul volto, un’espressione interessata. Con un gesto, lo incitò a continuare a parlare; e lui riprese, buttando fuori le parole tutto d’un fiato, una cascata di pensieri che si riversava fuori.
– Qui… che poi non so dove sia, qui… insomma, ci sono mio padre e mia madre. E se li incontrassi adesso? No, non potrei affrontare mio padre, quell’eroe di mio padre, l’uomo che per me ha dato la sua vita e dirgli: "Ne ho fatto buon uso, padre, l’ho usata per morirci contro i cani elfi scuri combattendo a malapena, sei orgoglioso"? E poi, come potrei affrontare mia madre sapendo che si è lasciata morire dopo la mia partenza? Come potrei anche solo guardarla, come potrei tenere la testa alta sapendo che è tutta colpa mia? E Maestro Jorge? Ha combattuto sino all’ultimo, mi ha concesso una via di fuga usando la sua stessa vita e io l’ho sprecata così! Come potrei guardare queste persone negli occhi senza vergognarmi, dimmelo! Come posso affrontare un’eternità sapendo che il senso di colpa nei loro confronti, la sensazione di essere inadatto, il non sentirsi all’altezza non mi abbandoneranno mai?
Tacque, sfinito da quell’ondata di disperazione che l’aveva avvolto, avvinto, masticato e poi sputato. Guardava la Morte negli occhi, e lei ricambiava il suo sguardo assorta. Le sue prime parole furono dette con tono talmente dolce e vibrante da mozzare il respiro.
– Capisci che loro non esistono più, se non in me? Che fanno tutti parte di me? E che l’unico modo per dimostrarti alla loro altezza è dimostrarti alla mia altezza?
Noctulis deglutì, annuendo, e si alzò in piedi a fatica. Le gambe lo sorreggevano a malapena, ma capì che in questo momento doveva dimostrare forza. La Morte adesso era seria, decisa, e la sua voce sembrava temibile come una tempesta epurata della sua furia, una distruzione pacata e inesorabile.
– Ti concedo una seconda opportunità, Noctulis Desmortes. Di solito queste cose avvengono per intercessione degli dei o delle forze magiche, ma io di persona mai ho rimandato un mortale nelle sue carni terrene di mia volontà. Mi hai colpito, e io ti propongo un gioco. Non sei libero di accettarlo, ma sei libero di seguirlo, perchè la fine è nota a tutti.
La nebbia prese una tinta luminescente, accesa, ed iniziò a vorticare freneticamente intorno ai due, alzando un vento incontenibile che schiaffeggiava il volto. Noctulis si ritrovò in ginocchio innanzi alla Morte, che invece non sembrava minimamente consapevole di quella furia, e continuava imperterrita il suo lugubre discorso di chiusura. Nei suoi occhi non c’era vita, non c’erano emozioni, non c’era niente, se non una speranza che assomigliava a una condanna.
– Tu vivrai per me, Noctulis Desmortes, mi servirai e mi onorerai. Io ti concederò un giorno di vita per ogni anima che porterai al mio trono, un pugno di giorni in più se l’anima è particolarmente ostile o peculiare. Tu vivrai nel sangue, e finché continuerai a dimostrarti alla mia altezza potrai vivere. Più ti impegni, più allontanerai il giorno in cui potrò reclamare di nuovo la tua esistenza. E adesso vai, Noctulis Desmortes, e buona fortuna…
Il vortice prese una tale velocità da scomparire, e divenire solamente un muro di luce, una luce bianca, che presto avvolse tutto, nascondendo a Noctulis il suo stesso corpo e pervadendolo di pace e calore. Il mondo intorno non esisteva più, lui non esisteva più, era solo luce, e tepore, e vita, finalmente…    

*    *    *

Soddisfatta del suo lavoro, di come aveva condotto la missione senza perdite di rilevanza, ovvero sé stessa, la drow aveva ormai raggiunto il limitare della boscaglia, già con il pensiero di godersi i meritati elogi. Nel cielo Rigel, il Principe Caduto, brillava soddisfatto della pena che aveva inflitto a quei due mediocri umani. Consueta ordinanza, niente di più. Si aspettava qualcosa di più dal rinomato Psicarca Bianco e dal suo allievo, ma pazienza…
Un rumore da lontano, dalla riva. Passi nell’acqua. Per pura curiosità, sicura di aver eliminato tutti, si voltò. Il lampo che vide investire i suoi quattro superstiti e la successiva roboante esplosione la buttarono nuovamente a terra, senza che riuscisse a vedere alcunché. I suoi occhi erano abbagliati da quella luce improvvisa, che la ferì senza ritegno, e alle sue orecchie giungevano le grida di strazio dei suoi consanguinei che bruciavano in quel vortice infuocato. Quando riaprì gli occhi, mille nuove stelle si accesero nella notte innanzi a lei, intontita, e all’improvviso lo vide. Una figura umana stava in piedi tra i cadaveri parzialmente carbonizzati dei suoi uomini, avvolta dalle ombre come un manto regale. Non era il buio tanto caro alla sua razza ma un vuoto raggelante, tale da inghiottirla se l’avesse osservato troppo a lungo, erano fauci di puro terrore pronte a divorarla. Da quel buio, si innalzava un tenue filo di vapore biancastro, dalla sommità della testa calva, dalle spalle esili, tenui volute di fumo che delineavano quel corpo umano troppo sottile per essere davvero vivo, ma che sprigionava un senso di opprimente maestà. Non riuscì a proferire parola o a emettere alcun suono quando la figura gli fu addosso ghermendola per il collo con le mani ossute.
– I ruoli sono cambiati, adesso- sussurrò con voce rauca e lugubre la figura di Noctulis Desmortes, nuovamente in piedi. Si sentiva nuovamente vivo e pulsante, e desideroso solo di conquistarsi nel sangue il suo futuro.
Quello che l’elfa guardava era un volto umano segnato da una bruciatura tale da rendere impensabile che potesse sopravvivere; i capelli e la pelle della sommità del capo erano interamente bruciati, mentre intorno agli occhi la carne era talmente scavata da farli risaltare ancora di più, scaglie di ghiaccio in un lago di lava rossa, che la osservavano desiderosi solo di scoprire cosa scorreva sotto la sua pelle.
– Da capo- pronunciò Noctulis in un soffio, diretto a sé stesso. Dalle sue mani iniziò ad irraggiare una vaga luminescenza azzurra che strinse il collo dell’elfa, ormai incapace di muoversi. Stava affrontando un demone uscito dagli inferni di Orione, cos’altro? Quell’individuo, quel giovane umano era morto, ed adesso era nuovamente lì, a strapparle la vita, a risucchiare via la sua anima attraverso la sua mano, a farla sua. La stava divorando, la stava usando per ricucire le sue carni, anche se le ferite non si chiudevano del tutto; adesso, però, era ben visibile un ghigno sul suo viso, un sorriso letale e maligno che stava decretando la sua morte. Con quello stralcio d’inferno si concluse la vita della giovane incantatrice drow, mentre un pezzo se ne aggiungeva a quella di Noctulis.
La sentiva. La vita pulsava in lui e attraverso di lui. L’aveva persa e l’aveva ritrovata, gli era stata ridata. Si guardò le mani, ancora sporche del sangue dell’elfa. Avrebbe tenuto quella vita con le unghie e con i denti, l’avrebbe fatto assolutamente, costasse quel che costasse, anche se fosse significata una vita nel sangue. Ma perlomeno, sarebbe stata una vita. 

Share Button

Commenti

commenti

10 comments

  1. Meraviglioso… non ci sono altre parole per descrivere il pezzo :)!!!

    Povero Jorge…Ma fine migliore di questa, non poteva fare. morire di vecchiaia sarebbe stato brutto.

    In quanto a Noctulis…. Così si fa!! E Si, è davvero bastardo!:D

  2. Ieri notte, mentre lo leggevo in anteprima, mi è presa un’ansia pazzesca… come se la storia non la conoscessi, poi…
    Davvero, una delle cose più emozionanti che tu abbia mai partorito, caro Frank.

    E ora vediamo quanti Frank passeranno prima del prossimo… (ma a ‘sto giro ci penso io a tirarti giù dalle brande…)

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.