Corte Celeste, mese di Sirio. Nuit.

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Stava camminando in un viottolo stretto e cedevole che a malapena riusciva a non farsi ingoiare dalle maestose dune che lo sovrastavano. Il cielo era scuro, di un colore innaturale, più rosso del sangue che macchiava il kimono bianco che stava indossando, e che ondeggiava leggero ad ogni suo passo. Attorno a lei non c’era altro a parte la sabbia, e la strada non conduceva da nessuna parte. Se si voltava, non vedeva nulla nemmeno dietro di sé.
Ad un tratto sentì distintamente una voce. No, molte voci. Si guardò attorno con lentezza, ma non vide nessuno. Anzi, si accorse che il cielo si faceva sempre più scuro.
Senza rallentare, come spinta da una forza misteriosa, continuò a camminare mentre le voci si facevano più vicine. Le sembrò di riconoscerne una, e poi un’altra, e poi altre ancora. Voci del passato e del presente, voci che non udiva da anni e voci che da tempo non riusciva più ad ascoltare, e tutte parlavano di cose mai udite prima.
Come la coda di un pesce che guizza all’improvviso, apparivano e scomparivano senza preavviso: nel momento in cui le associava a un nome o a un volto, per un istante, un unico lungo istante, riusciva a discernere con certezza i segreti recati da quelle voci, le loro paure, tutte le loro angosce più inconfessabili. Le maschere cadevano improvvisamente, e lei riusciva miracolosamente a sentire ciò che vibrava nei cuori di coloro che amava o aveva amato un tempo. Ogni cosa.
E poi, i cerchi sull’acqua si facevano più radi, finché non si dissipavano. In breve non ricordava più nulla di ciò che aveva avvertito un attimo prima.
Dopo le voci, arrivarono le immagini. Ombre sbiadite del passato, fantasmi di ricordi che non le appartenevano. Si ritrovò davanti Kasumoto col capo chino sopra una pozza d’acqua torbida, mentre due lacrime argentate brillavano sulle sue guance stanche. Vide sua madre, ancora ragazzina, che danzava attorno al fuoco tenendosi le mani al petto, sognante. Vide Desmond, cupo e scuro in volto, volgere lo sguardo al cielo. E poi arrivarono una giovanissima Miralys, abbandonata su un’ampia sedia mentre la tosse le divorava il petto… i tre fratelli Algan imbacuccati nei loro ampi mantelli che correvano nella notte, reggendosi il cuore perché non scoppiasse… il testone bianco e nero di Misha e gli occhi bicolore di Rosminta chini sullo stesso tavolo pieno di polverine, entrambi colmi di eccitazione… Ayleen, brando alla mano e labbra serrate, che fissava la sua compagna di viaggio dallo sguardo vacuo eppur così vivo… Liarl che giaceva sotto un alto larice a braccia conserte, osservando la luce della luna… Marek, addormentato con la testa reclinata fra le braccia su un lungo tavolo… Raphael, seduto sull’erba, ad occhi socchiusi, che giocherellava con un giglio bianco accanto a una lapide… Sebastian, poco più che adolescente, che assaggiava incerto un calice di vino speziato… Nihal ancora bambina, acquattata come un gatto sotto un cespuglio, che serrava così forte le mascelle che quasi i denti stridevano l’uno sull’altro… e poi ancora il cesto scuro dei ricci di Dahal stretto fra le mani di una fanciulla di cui non riconosceva il volto… un giovane William che sorrideva timidamente, abbassando la testa fino a guardarsi la punta dei piedi…  Hakù, appena un fanciullo, che rideva mentre mostrava a Thanatos un grosso pesce dorato appena pescato… Alehandro che irrompeva fuori dal carrozzone, i suoi grandi occhi azzurri sbarrati dinanzi ad una scena raccapricciante… e infine si fermò. La strada era improvvisamente terminata. Oltre non c’era nulla. Nient’altro. 
Ogni visione disparve, lasciando alle sue spalle solo un vago ricordo di sé, e il cielo si fece improvvisamente talmente cupo da diventare nero. Chissà da quanto tempo la tintura bianca del suo kimono aveva iniziato a sgocciolar via, lasciando delle piccole chiazze candide sul sentiero arido, dalle quali nascevano immediatamente dei minuscoli rovi contorti. Adesso i suoi abiti erano interamente intrisi di sangue.
Ma non dovette curarsi a lungo di tutto questo. Una folata di vento inesistente porto via il suo velo, che si raccolse poco distante, su quello che all’apparenza sembrava solo il nulla.
Prima che potesse muovere un passo verso di esso, la stoffa si gonfiò a dismisura, ubbidendo a un silenzioso richiamo, e da essa sbocciò una nuova figura avvolta in un lunghissimo sari ricamato finemente d’oro. Lunghi capelli biondi incorniciavano un volto giovane e affilato, di una bellezza gelida eppure irresistibile. Teneva gli occhi chiusi e un gelsomino fra le mani. Kaessandria.

– Non so se esser lieta che tu sia qui.
– In realtà non credo di essere ancora arrivata qui. Non so nemmeno dove sia, qui.
– Qui è dove ogni cosa termina. Dove ogni cosa trova la sua fine e poi si rigenera. Qui è dove tutto si svela, e dove tutto è ancora possibile.
– Faccio fatica a comprendere le tue parole.
– La sabbia non ha una sua forma.
– Ma la foggia di un singolo granello può far crollare una duna intera.
– Ciò che hai perso è più importante di ciò che hai trovato?
– Non posso saperlo. Ciò che ho perso è perduto per sempre.
– Terra senz’acqua rende l’agave miracolosa.
– È per questo che non c’è altro che sangue e vuoto attorno a me?
– È lei che decide quale sia il nostro posto… né a me né a te è concessa scelta.
– Io esisto ancora, maledizione!
– E questo è stupefacente, dopotutto.
– Voglio tornare. Voglio vivere.
– Non è ancora il momento. Ma, quando e se giungerà, sarà come svegliarsi da un brutto sogno che dura da troppo tempo.
– Non so se ce la farò a resistere, sono esausta.
– E allora cedi pure all’oblio, ma sappi che non verrai più destata.

La figura di Kaessandria si dissolse in migliaia di petali di gelsomino, che si sparpagliarono a terra per poi riunirsi, formando una lunga strada luccicante che si srotolava nel nulla più assoluto.
Esitò a muovere il primo passo. Davanti a lei l’unico sentiero percorribile galleggiava nella tenebra più totale e il chiarore che i petali sprigionavano non bastava in alcun modo a dissipare le ombre che si serravano intorno ad esso.
Si guardò le mani: erano lorde di sangue nero, denso, appiccicoso. I minuscoli rovi erano cresciuti, nel frattempo, e si erano avviluppati intorno alle sue caviglie, impedendole di camminare senza ferirsi. Le sembrò di rimpicciolire ogni istante che passava lì, senza decidersi a fare nulla, mentre il kimono si faceva sempre più pesante, premendo sulle sue spalle e avviluppando le sue carni in modo sempre più insopportabile. La stoffa densa di sangue la soffocava, la schiacciava a terra, le succhiava via l’aria dai polmoni. Dunque era questo che l’aspettava? Aveva lottato così tanto per sopravvivere dentro a quell’anima inquieta, e adesso non aveva più la forza di resistere?
“Ormai ci sono solo sangue e rovi… a riempire questo gran vuoto…”
Aveva lottato così tanto per sopravvivere dentro a quell’anima inquieta, e adesso non aveva più la forza di resistere?
“…e dopo, che cosa rimarrà di te, stupida idiota? Davvero vuoi dargliela vinta?”
Eppure non cercava di opporre resistenza, né di divincolarsi. Si sentiva rassegnata all’idea di scomparire, inghiottita dal groviglio di spine e dalle sue stesse vesti, diventate un peso insostenibile. Attorno a lei c’era solo buio e silenzio. Non un gemito proveniva dalla sua bocca. Se anche avesse provato, era certa che dalla sua gola non sarebbe uscito alcun suono. E poi, davvero, sentiva di non aver più la forza di opporsi a nulla.

Ad un certo punto si sentì tirare delicatamente per il colletto. Qualcuno o qualcosa stava cercando di districare i rovi, di sfilarle via l’abito dalle spalle, di versare acqua fresca sulla sua testa. Non vedeva più nulla, ma riusciva a distinguere alcune ombre azzurrine attorno a lei. Percepì mani che le pettinavano i lunghi capelli intricati, braccia che la sorreggevano, nasi che si sfregavano contro la sua spalla, persino l’abbraccio della seta morbida attorno al suo corpo. Quando finalmente i suoi occhi riuscirono a vedere qualcosa, i rovi erano stati divelti, il suo kimono era tornato candido e immacolato e solo qualche goccia di sangue vermiglio stillava ancora dalle ferite sui suoi piedi, che poggiavano già sul sentiero, ristorati dalla luminosa freschezza dei petali di gelsomino.
Dietro di lei, decine di figure argentee e alcune rare ombre dorate danzavano senza posa intrecciandosi l’una all’altra. Una in particolare, la più luminosa di tutte, sembrava rimaner ferma sul sentiero, puntando il dito avanti. Attorno ad essa volteggiavano tutte le altre, ora avvicinandosi ora allontanandosi, alcune finendo per affiancarla, le mani eteree protese in avanti e le teste che ondeggiavano annuendo.
Erano ancora tutte lì, dunque. Poteva dare un nome ad ognuna di esse.
Era per loro e grazie a loro che si trovava ancora lì.
Ma adesso non stava più a lei fare il resto.

Si alzò dal suo giaciglio, con gli occhi appena socchiusi. Uno dei compagni con i quali divideva la stanza tentò di chiamarla, ma non ottenne alcuna risposta.
Si sedette allo scrittoio dove aveva lasciato le sue carte nemmeno un’ora prima. Velocemente, intinse il pennino nel calamaio e iniziò a scrivere sul primo foglio di pergamena che trovò sottomano. Sudava, sudava e ansimava, respirando a fatica. Ogni segno sulla carta sembrava le costasse molto sforzo.
Dopo alcuni minuti abbandonò la sedia, stringendo la missiva fra le mani.
Si avvicinò alla guardia della ronda notturna e le parlò con voce quasi irriconoscibile. Il soldato attribuì quella stranezza al troppo lavoro e all’ora tarda, così si limitò ad assicurarle che il corriere sarebbe partito la notte stessa, come concordato. La moneta d’oro che stringeva fra le mani l’aveva convinto a far meno domande possibili.
Tornò a distendersi sul giaciglio. Un altro compagno di stanza la chiamò, ma di nuovo non ottenne alcuna risposta.

***

La mattina dopo sgranò gli occhi quando le dissero che la missiva era stata regolarmente spedita a un certo Alehandro Maquin’Daar e a una certa Miralys Rockraven presso la quale lui dimorava, in un villaggio di Arath.
Non ricordava assolutamente di aver fatto nulla del genere.

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Commenti

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5 comments

  1. Mela, basta scherzi, per favore, il mio cuore è già provato… Ma tanto so ormai come attirare la tua attenzione…
    “Scusa DESMODAR, hai DESMODAR scritto DESMODAR tu DESMODAR questa DESMODAR lettera? DESMODAR?”

  2. mmm…
    mmm…
    Mela, non vorrei distrarti… ma spero che almeno…potrai spiegarci tutto appena tutto questo finirà, VERO???
    Secondo me il trucchetto non funzionerà…

  3. Infatti non funzionerà affatto, a meno che il tuo intento non sia quello di far baltare di capo la cecata, ovvio… 😀

    Dahal: vero? cosa mia vista prima!!! Si chiama sonnambulismo, comunque, credo che il nostro psichiatra in nuce ce lo possa confermare…

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