Il giorno in cui bruciammo nostra madre

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Hari aveva conosciuto la cripta di famiglia solo tramite le parole di sua sorella Viktorya. C’erano troppe scale tra la sua stanza al primo piano della magione e il piano sotterraneo in cui la cripta si trovava, quindi non gli era possibile andarci in alcun modo. Vivi, in compenso, sin da quando era stata in grado di gattonare aveva esplorato l’enorme e vuota magione Von Khratos in lungo e in largo, portando ogni volta una storia diversa da raccontare; le storie dalla cripta di famiglia, poi, erano particolarmente vivide. Vivi si sedeva sempre sul bordo del letto di Hari, a gambe incrociate, e iniziava a raccontare con occhi spalancati.
– Oggi ho conosciuto Mani Bianche, Hari! – gli raccontò una volta sua sorella, quando aveva nove anni.
– Mani Bianche non esiste. È una storia inventata da babushka perché non vuole che tu scenda nella cripta – le aveva opposto laconicamente il ragazzo, ma niente, Vivi era incrollabile.
– Ma l’ho vista, ti dico! Le sue mani pallide premevano dietro la porta a vetri, e quando l’ho aperta dietro non c’era nessuno!
– Fammi capire, tu vedi delle mani spettrali e apri loro la porta? – aveva biascicato un terrorizzato Hari, deglutendo.
Vivi strinse le spalle e corse via, verso nuove avventure, come tutte le volte. Ogni volta che tornava dalla cripta portava storie incredibili: una volta aveva incontrato la zia Miroslava (morta prima che lei nascesse), una volta aveva giocato con un bambino della sua età che poi era svanito come fumo, una volta era tornata con le medaglie di Kirill il Frangizanne, orgoglio della casata vissuto tre secoli prima. La cripta era un luogo che terrorizzava Hari e affascinava Vivi, ma che in entrambi i casi era al centro di un profondo rispetto: lì riposava la storia della loro famiglia, le braci ancora ardenti del loro orgoglio di Von Khratos, lo spirito più profondo che animava la loro stirpe.
Gli anni erano però passati, e Hari e Viktorya si trovavano ora nella cripta di famiglia assieme. Non c’era curiosità, né ammirazione, né paura nei loro cuori, ma solo un dolore acuto e opprimente.
In quella cripta, in quel momento, stava il cadavere della loro madre.

* * *

La sala principale della cripta della famiglia di Hari e Viktorya era la Komnata Pamyati, la “camera delle memorie”; costruita nel livello più basso della magione, completamente sottoterra, era una stanza in pietra scura e fredda, illuminata solo da una coppia di lanterne poste vicino all’ingresso, dove terminavano le scale. Le pareti erano coperte solo da una lunga serie di scaffali che ospitavano piccole teche in vari materiali, alcune molto semplici, altre finemente intarsiate e decorate. Ognuna di quelle teche ospitava il cuore di un volk Von Khratos, in eterna memoria. Dopotutto lo recitava anche l’iscrizione sulla teca del fondatore di quel ramo della famiglia, Georgiy Von Khratos: “Il tuo spirito riposerà nelle sale di Shiva, ma la tua carne rimarrà qui per sempre”.
Una piccola porta a vetri conduceva dalla Komnata Pamyati alla Pervaya Grobnitsa, il Primo Sepolcro. La stanza era ancor più piccola e se possibile più buia della precedente; le pareti erano decorate con un antico mosaico raffigurante l’arrivo a Karthas dei Lupi Ghiacciati, ma con quella scarsa luce si intuivano solo sagome che incombevano dalle pareti in modo lugubre. Nessuno però guardava mai i mosaici, perché chi si trovava in quella stanza di solito guardava l’altare di pietra al centro della stanza.
Su quell’altare di pietra in quel momento giaceva disteso il corpo di Nina Eva Elizaveta Von Khratos. Intorno a lei, le uniche tre persone a cui era consentito essere nel Pervaya Grobnitsa: suo marito Dmitrij e i suoi figli Hari e Viktorya. La prima parte del cerimoniale per i morti era riservato solo ai familiari stretti, mentre chiunque poteva partecipare alla fase successiva. Hari, in quel momento, avrebbe voluto solo non essere presente lì, voleva poter essere uno di quelli che non si beccavano questa parte, essere altrove. E la parte difficile non toccava nemmeno a lui.
La prima parte del rituale funebre prevedeva l’asportazione del cuore del cadavere. Questo ruolo spettava al consorte del defunto. Hari guardò suo padre dispiegare un panno di lana da cui estrasse un lungo pugnale d’acciaio finemente decorato; salmodiando, il vecchio Dmitrij lo asperse con un liquore paglierino, che liberò nella stanza un profumo alcolico e acre. Quando l’uomo si avvicinò al corpo si rivolse ai figli con sguardo torvo. La sua voce tremava leggermente.
– Voltatevi verso il muro. Intonate una prece a Shiva.
Obbedienti, Hari e Vivi si girarono a fronteggiare la parete. La ragazza iniziò a intonare una preghiera, cantando sommessamente, e il fratello le andò dietro titubante. Si sentiva la bocca impastata, le mani paralizzate e la testa vuota. Cosa stava facendo? Perché era lì? Perché non scappava da qualche parte, lontano da questa sofferenza?
Nonostante il canto, le orecchie dei due percepivano quello che stava succedendo alle loro spalle. Prima sentirono il fruscio dei lacci della blusa che veniva sciolta e aperta. Vivi steccò una nota, con la voce che iniziava a rompersi. Hari guardò la sorella in volto; era dannatamente pallida, e dagli occhi chiusi scendevano lacrime silenziose.
Poi udirono il metallo che penetrava l’osso stridendo. Il rumore della carne che veniva tagliata. Un pensiero balenò nella mente di Hari: “Nessuno ti dice mai quanto sia difficile fare un taglio pulito”. Quel rumore non era quello che si sente sui campi di battaglia quando una spada trancia muscoli e scheletro. È un suono lento e disgustoso, umido e raccapricciante. Un singhiozzo ruppe la preghiera di Vivi, poi un altro. Hari si accorse di aver smesso di cantare e di star muovendo solo le labbra senza emettere un fiato. Allungò la mano e afferrò quella della sorella; la prece si era trasformata in un lamento gutturale, trascinato, spezzato da singulti e gemiti abbozzati. Le mani dei fratelli si strinsero, ed entrambi insieme ripresero a intonare il loro funebre canto. Passarono minuti interminabili, in cui le loro voci riempivano il Pervaya Grobnitsa in modo che nessun altro suono fosse percepibile.
Quando Dmitrij sfiorò loro le spalle era tutto finito. Il corpo della madre era stato ricomposto e indossava una tunica pulita; le vecchie vesti e gli stracci usati per pulire il sangue erano gettati in un angolo, in attesa di essere disposti per l’atto finale del rituale, che si sarebbe tenuto il giorno successivo. L’ultimo passo della giornata toccava però adesso ad Hari e Vivi.
In una ciotola di bronzo stava il cuore di Nina Eva Elizaveta. Una piccola pozza di sangue si era radunata sul fondo della scodella. Vivi raccolse il cuore usando una benda pulita e lo mondò dai grumi di sangue in eccesso; lo immerse completamente in una giara contenente un composto a base di mirra e resine, quindi lo pulì nuovamente con cura eliminando gli eccessi. Hari le porse un’urna di terracotta, e la sorella depose con cautela il cuore sul fondo.
– Che le sale di Shiva ti siano aperte, mamma – bisbigliò. Le tracce delle lacrime ancora solcavano il suo volto, ma gli occhi erano asciutti adesso, la voce suonava ferma.
Hari chiuse la giara con un tappo di legno. Con una spatola sigillò i bordi con della cera, quindi avvolse un drappo rosso intorno alla parte superiore della giara. Con mani ferme impugnò il contenitore e si diresse nella stanza precedente, la Komnata Pamyati. Individuò uno scaffale vuoto. “C’è spazio anche per me”, gli balenò in testa mentre un brivido gli correva lungo la schiena. Si inchinò e depose la giara con delicatezza, recitando la formula finale.
– I figli del lupo non sono mai soli, nemmeno nella morte.
Per un attimo, Hari ebbe però l’intenzione che nella stanza, oltre lui, non ci fosse nessuno.

* * *

Era dall’inizio della stagione di Ashnog che a Port-Anchor la neve andava e veniva a intervalli regolari. Mentre Hari si dirigeva a larghi passi verso il cancello principale della casa di famiglia, constatò come quello fosse uno dei giorni in cui la neve veniva per restare a lungo; lo strato bianco che copriva il giardino gli arrivava tranquillamente alla caviglia e sui tetti della bassa cinta muraria che circondava la magione si era formata una coltre uniforme. Sotto la tettoia del cancello Marjorie, la donna tuttofare al servizio della sua famiglia, stava recuperando le redini di alcuni cavalli e li stava portando verso la scuderia. Eliot, nel frattempo, stava abbracciando calorosamente a turno le cinque persone appena giunte, intente a scrollarsi la neve dai pesanti mantelli di pelliccia. Gli Zakhody erano arrivati.
Hari inspirò con forza l’aria gelida di quella fredda mattina. Non era un campo di battaglia, quello in cui si trovavano adesso, ma la sua dimora. Doveva dimostrarsi un buon padrone di casa, specie in un’occasione come questa. Giunto sotto la tettoia assunse un tono formale e drizzò la schiena.
– Benvenuti alla magione Von Khratos e grazie per aver accettato l’invito della nostra famiglia. Vi esorto a mettervi a vostro agio all’interno della dimora come se fosse vostra. Mi scuso per le avverse condizioni climatiche che vi ho spinto ad affrontare per ottemperare a questa convocazione.
Con la coda dell’occhio Hari intravide Eliot che alzava gli occhi al cielo; la ragazza aveva sentito questa formula troppe volte negli ultimi giorni, mentre aiutava Hari ad accogliere ospiti e parenti. Nessuno di loro, però, aveva reagito come Lucien.
– Complimenti, Hari, mi sono perso molte cose nelle ultime settimane – ridacchiò mentre spazzava via la neve dall’elmo chiomato. – Adesso sei capace di controllare la neve e ti devi scusare per averla fatta cadere! Che poteri incredibili che hai sviluppato!
Tutta la preparazione formale di Hari si sgretolò in un istante.
– E dai, Lucien, che hai capito… – biascicò il volk mentre abbassava lo sguardo verso le punte dei piedi. La mano della guida degli Zakhody gli si appoggiò sulla spalla.
– Non ti devi preoccupare per noi, nei prossimi giorni, Hari. Siamo noi ad essere qui per te, per Vivi e per la tua famiglia – gli disse serio Lucien. Hari si limitò a biascicare un ‘grazie’ a capo basso. Era commosso da quelle poche parole e non lo voleva dare a vedere.
Mentre Lucien gli scorse accanto, il volk fu investito dall’abbraccio di Yagosh. Rimase per un istante interdetto, ma poi ricambiò calorosamente l’abbraccio.
– Condoglianze per tua madre– farfugliò il ragazzone, il volto infilato nel mantello del padrone di casa. Hari gli batté la mano sulla schiena un paio di volte; il grande cuore di Yagosh era una delle cose che riuscivano sempre a tirarlo su di morale.
– Ormai è passato un anno e mezzo da quando è morta, Yagosh – gli disse teneramente. – Era tempo che facessimo questa cerimonia per lei. Grazie per essere venuto.
Dopo Yagosh fu Valérie a farsi avanti. I due si abbracciarono in silenzio. Quando i due si allontanarono, Hari vide gli occhi lucidi della nobildonna, che provava a nasconderli dietro un sorriso gentile.
– Viktorya? – chiese la dama in un soffio. Aveva la voce rotta, ma Hari riconobbe il contegno che si confà a una nobile valdemarita mentre ricercava un tono più composto.
– Si sta preparando. A breve dovrebbero arrivare anche i Grandi Randelli e Vivi sta sistemando tutti i preparativi per accoglierli e… – rispose il volk.
– Posso andare a trovarla? – lo interruppe rapidamente Valérie. Hari sorrise, facendo un cenno d’assenso col capo.
Quando Valérie si allontanò fu Navarre a farsi avanti. Il nobiluomo porse la mano guantata elegantemente.
– Che vuoi che ti dica, Hari? Tanto sai quel che c’è da dire in queste occasioni – si schernì il valdermarita, schietto e diretto come suo solito. I due si strinsero la mano e ad Hari scappò pure una risata, la prima della giornata.
– Vuol dire molto, Navarre – ringraziò il volk. Il suo sguardo si posò sull’ultimo ospite, che apparentemente si stava togliendo la neve dagli stivali.
– Chavi – salutò il padrone di casa con tono apprensivo, mentre l’ospite alzava il capo verso di lui e metteva le mani in posizione difensiva.
– Non c’è necesidad de dire nada, Hari – disse Chavi in un soffio. – Esta es tu casa e mas e poi mas penserei a dar problemas. Tu tiene que pensar solo a tu madre.
Hari annuì, mentre l’altro gli si faceva incontro per abbracciarlo.
– Despues lo so que tu es povero como un perro e non tenes nada que scroccare in casa – concluse il biondo a metà abbraccio.
– Questo volevo sentirti dire, Chavi – sospirò Hari rincuorato.

* * *

Nella grossa cucina della magione un pentolone ribolliva allegro nel camino mentre sulla stufa un paio di tegami emanavano un profumo celestiale. Eliot e Hari lavoravano su un tavolo vicino alla finestra, impegnati a tagliare grossi pezzi di verdura che poi buttavano in un catino di legno.
– Grazie per l’aiuto, Eliot… – iniziò il volk, ma la donna lo interruppe con un gesto secco.
– Sarebbe la dodicesima volta che mi ringrazi oggi pomeriggio, non credi che abbia capito ormai?
Il tono della voce della ragazza sembrava scocciato, ma tradiva un certo divertimento nonché una nota di sincero apprezzamento. Hari sorrise debolmente, mentre recuperava una verza da una cesta di vimini e iniziava a dividerne le foglie.
– Piuttosto – proseguì Eliot, stavolta leggermente titubante – sei sicuro che vuoi che faccia parte della cerimonia? La proposta è stata… inaspettata, diciamo… gradita, capiscimi bene! Però io vostra madre l’ho conosciuta per poco tempo…
Hari annuì, sicuro.
– Sei diventata una di casa ormai, Eliot, nell’ultimo anno. Non è stata nemmeno una proposta, sia mio padre che babushka hanno dato la tua presenza come più importante di quella della maggior parte dei parenti o degli amici di famiglia, per quello che hai fatto per noi…
Eliot provò a schernirsi ridacchiando, quando in quel momento Vivi entrò in cucina, un panno sulla testa a coprire i capelli fradici.
– I Grandi Randelli sono arrivati – esclamò allegra la giovane mentre assaggiava di corsa un cucchiaio di sugo dello stufato. – Fuori la neve sta rafforzando e mmmmmh, Eliot, ma è buonissimo!
– La base della ricetta me l’ha data la vostra babushka ma l’ho trovata un po’ aggressiva, così ho apportato un paio di modifiche… – si schernì la cuoca.
Hari le guardò teneramente mentre le due chiacchieravano. Non sapeva se avrebbe scambiato il suo modo di affrontare la cosa con quello di Vivi. Sua sorella era sempre stata estrema nelle esternazioni delle sue emozioni, e spaziava tra esse a gran velocità; quello che provava si manifestava tanto improvvisamente quanto intensamente, per poi passare con rapidità. Hari era convinto che quella fosse una dimostrazione della forza d’animo di Viktorya. Quando provava dolore, nessuno soffriva tanto quanto Vivi, nessuno era tanto coinvolto quanto lei: allo stesso tempo però era sempre la prima a riprendersi, a cercare di tirare su gli altri, a tornare ad essere la solita allegra e vitale Vivi. Non come lui, che si portava le cose dentro macerandosi, che non riusciva a esternarle, che le trascinava a lungo. Eppure anche in quel momento le sue emozioni gli sembravano distanti, ovattate, confuse. Hari pensò che se avesse provato qualcosa con l’intensità con cui lo provava Vivi probabilmente si sarebbe spezzato.
Osservò la sorella ed Eliot mentre discorrevano tranquillamente innanzi alla fiamma del camino, apparentemente spensierate. Gli venne in mente come da qui al tramonto quell’allegria sarebbe nuovamente diventata pianto e sofferenza, ma che all’alba del nuovo giorno sarebbe tornata la serenità. Il volk pregò brevemente Volk’ar, dentro di sé, perché gli desse la forza di aiutare gli altri in questo momento in cui sembrava non trovare forza nemmeno per se stesso.

* * *

La luce del tramonto brillava debole, come una lama d’argento nella tormenta di neve che impazzava. Nel cortile della magione Von Khratos le fiamme dei bracieri posti sotto le tettoie danzavano scosse dal vento impetuoso, tanto che le ombre si dibattevano al suolo e sulle pareti come se in preda a spasmi. Una quarantina di persone attendeva sotto il porticato della vecchia villa, le spalle coperte da ampi mantelli di lana o di pelliccia. Un debole chiacchiericcio provava a contrastare l’ululato del vento con scarso successo.
Quando le porte dell’ingresso si aprirono cadde il silenzio tra gli astanti. Su una lettiga, coperto da un telo cremisi, usciva il corpo di Nina Eva Elizaveta, il motivo per cui tutti erano radunati lì; a reggerlo stavano davanti il vecchio Dmitrij Von Khratos e Marjorie, dietro Hari e Vivi. Lo sguardo dei quattro era fisso verso la pira organizzata nel cortile, coperta da uno strato leggero di neve depositatosi nei pochi minuti in cui la catasta era stata approntata. I portatori della lettiga affrontarono la tormenta a capo alto, mentre gli invitati li seguirono disposti su due file ordinate. La fila e le porte della dimora furono chiuse da una donna anziana e curva, rincagnata sotto una pesante cappa nera, il volto pallido e grinzoso appena percepibile sotto il cappuccio; la voce di babushka Ekaterina si alzò potente e stentorea oltre il latrato del vento in un canto funereo.

Amatemi come io amo voi
Amatemi come il sangue nelle vostre vene
Amatemi come l’ombra ai vostri piedi
Amatemi come il vostro ultimo respiro

Donatemi il vento sotto le vostre ali
Donatemi il calore del vostro fiato
Donatemi la luce dei vostri occhi
Donatemi i migliori tra i vostri figli

Non voglio vane lodi di giorni passati
Bensì il racconto dei tempi che saranno
Non voglio il silenzio di una casa vuota
Ma il palpitare di cuori vigorosi

Amatemi, e io vi accompagnerò per sempre
Quando l’anima si staccherà dal vostro corpo
E quando la paura attanaglierà le vostre carni
Saranno le mie mani ad accogliervi nell’ultima dimora.

Alla voce di babushka Ekaterina si aggiunsero molte voci di amici e parenti, in un crescendo che andò a far tacere il vento stesso. Al termine del canto, la lettiga era stata issata sulla pira; Hari, Vivi, il padre Dmitrij, la vecchia babushka, Marjorie ed Eliot si erano disposti ordinatamente intorno alla catasta. Alle spalle, su due file opposte, si erano schierati da una parte gli Zakhody e dall’altra i Grandi Randelli; tenevano le armi sguainate verso il cielo, ad affrontare la tempesta, saldi come statue.
Hari e Viktorya presero due torce dai bracieri più vicini. Lo sguardo del volk si perse per qualche istante nelle fiamme, per poi posarsi sulla sorella. Le lacrime e i singhiozzi avevano già preso possesso della ragazza, ovviamente. Hari non volle neanche pensare cosa provasse Vivi in quel momento, quanto il suo cuore fosse gonfio di dolore. Sentì freddo, nelle carni e nel cuore. Sentì che sarebbe dovuto scoppiare a piangere anche lui. Non ci riusciva. Avrebbe voluto, ma l’unica cosa che sentiva era un artiglio gelido che gli premeva sul petto. Le torce strette in mano, Hari e Vivi furono guidati dal padre verso due piccole nicchie nella pira, costruite per avere accesso alla legna più secca al riparo dalla neve. Era giunto il momento, dunque.
Hari pensò a qualcosa da dire, ma sentiva i suoi pensieri paralizzati. Sentì Vivi bisbigliare qualcosa tra le lacrime. “Almeno uno dei due è riuscito a dire qualcosa alla mamma”, pensò il giovane volk. Sperava profondamente, in cuor suo, che sua madre sapesse da sola cosa lui le avrebbe voluto dire in quel momento.
Le fiamme delle torce lambirono la legna secca, che si incendiò crepitando immediatamente. Il fuoco si propagò con rapidità per tutta la catasta, alzando lingue scarlatte e dorate contro il cielo nevoso; il ruggito della pira superò il lamento del vento, come quello di una bestia furiosa che lanciava la sua sfida al mondo. Il telo cremisi deposto sul corpo di Nina Eva Elizaveta prese fuoco, ma la luce emanata dalla pira feriva gli occhi tanto da rendere impossibile guardare all’interno. Adesso le fiamme sarebbero dovute ardere fino a estinguersi, mentre la famiglia e gli amici recavano i loro omaggi. Uno dopo l’altro, in una lunga fila, tutti i presenti si presentarono al cospetto dei figli e del marito della defunta, porgendo qualche parola di conforto. Hari, con la coda dell’occhio, vide gli Zakhody alle sue spalle; Lucien, una mano sulla spalla di ognuno dei due, stava dicendo qualche parola a Valerie e Yagosh, entrambi con gli occhi lucidi, mentre Navarre e Chavi parlavano con Eliot, seri come il ragazzo mai li aveva visti.
Un rombo risuonò nel cortile della magione; Hari si voltò di scatto verso Raul e lo vide con la pistola fumante puntata verso il cielo. Sarebbe stato pronto a far notare al capogruppo dei Grandi Randelli che forse non era proprio l’occasione più adatta per mettersi a sparare in aria, ma poi si accorse della leggera risata tra le lacrime di Vivi. Raul, Diego, Roland, Pedro, Dayanara e Jean-Claude erano stretti intorno a sua sorella, che sembrava evidentemente rincuorata dalla presenza del gruppo. Hari guardò di nuovo gli Zakhody, poi i Grandi Randelli. Famiglia strane, disfunzionali, nate in circostanze bizzarre, ma assolutamente famiglie. Famiglie che lui e Viktorya si erano scelti oltre la loro. Il volk sospirò, in un mezzo moto d’orgoglio: i rampolli Von Khratos si erano scelti la loro strada, e non sarebbero stati mai veramente soli neanche se i casi della vita li avessero divisi per qualche motivo. Gli sembrò adeguato pensare proprio durante il funerale di sua madre che le famiglie andavano e venivano, ma che alla fine non si perdevano mai.
Gli ospiti iniziarono a tornare all’interno della magione quando Eliot e babushka Ekaterina annunciarono che il banchetto commemorativo era aperto. Era tradizione di famiglia che, mentre la pira bruciava, si commemorasse la vita del defunto con libagioni e canti, senza dare spazio alla tristezza. Tutti entrarono all’interno, anche solo per sottrarsi alla nevicata sotto cui erano stati fino a quel momento e per cercare un po’ di calore. Hari giunse sulla porta e si preparò a chiuderla quando si accorse di una sagoma nella tormenta, ancora in piedi davanti alla catasta ardente. Sarebbe stato inutile provare a richiamarla, tra il vociare degli invitati e la tempesta in atto, quindi il volk si riallacciò il mantello che si stava già togliendo e uscì nuovamente all’esterno. Arrancò nella neve fino a raggiungere la figura e il cuore gli si strinse quando riconobbe il volto di suo padre Dmitrij. Era fermo, rigido come una statua di marmo, le braccia conserte. Gli occhi, cerchiati da aloni rossastri, fissavano immobili le fiamme divampanti mentre il volto pallido sembrava traslucido innanzi alla luce del fuoco. Hari gli si avvicinò e lo prese per un braccio, con la delicatezza che avrebbe avuto per una bambola di porcellana. Nell’ultimo anno, da quando Nina Eva Elizaveta era morta, non l’aveva mai visto così.
– Vieni dentro, papa – gli disse il figlio con un sussurro preoccupato. Il vecchio Dmitrij non sembrò neanche sentirlo. Scrutava le profondità della pira come se nascondessero un qualche indicibile segreto. Hari rimase in silenzio accanto a lui, le mani intrecciate in grembo come un bambino che avesse compiuto un qualche misfatto. Quando suo padre parlò, dopo diversi minuti, il fuoco stava iniziando a spengersi, tremando sotto la spinta del vento. La sua voce sembrava provenire dalle profondità di un abisso.
– Le catene più dolorose sono quelle che non vediamo – commentò con tono piatto. – Quelle che ci siamo scelti da soli.
Hari tacque. C’era un senso di irreversibilità in quel momento. Non avrebbe mai più rivisto il volto di sua madre, la donna che aveva sacrificato così tanto per lui, eppure la sua mente pensò al legame tra suo padre e sua madre. All’amore che li legava, alle difficoltà che avevano passato insieme, a quanto i suoi genitori erano stati e sarebbero per sempre stati una cosa sola. Pensò al dolore di suo padre in questo momento, rimasto senza la sua compagnia di vita, e ne fu investito. Avrebbe voluto provare anche solo una volta nella vita quel dolore sordo, infinito, perché avrebbe voluto dire che aveva provato quell’amore anche lui, che aveva trovato una persona con cui condividere ogni cosa. Sembrava stupendo, e terrificante, e incredibile, e orribile. Hari guardò verso un angolo del giardino, verso le ombre più oscure che si nascondevano dalle fiamme, come se sperasse di trovare una rivelazione in quella tenebra. Dalle ombre, però, non uscì niente.

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