Nessuno è fortunato tre volte

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Magnirocca, Notte Ventesima Prima della luna di Sirio.

La testa del suo compagno torreggiava al centro del rivellino, dove tutti potevano vederla. Pareva ammiccare al chiarore dei fuochi sugli spalti, conficcata nella picca con tale violenza che la punta emergeva dalla calotta tra i capelli intrisi di sangue rappreso.

Zannaforte non era un tipo incline al perdono.

Quella era la sorte per l’incauto che, in preda ai folli fumi della Nebbia, durante l’assalto alla rocca in cui avevano cacciato via i bambocci delle Masnade, aveva osato storpiare il nome del loro condottiero in Zanna Bianca.

Che imbecille!

Anche lui aveva respirato la Nebbia, come tutti gli altri, prima dell’assalto. Era stato come inalare qualcosa di vivo, vivo e senziente, che si era insediato nella loro mente e nei loro corpi, riempiendoli di incredibile vigore e rigenerando le loro carni come accadeva a quelle venerabili dei Troll.

Sua madre era una guaritrice. Era morta molto prima che lui si recasse nella Scacchiera, dopo la fottuta guerra, e abbracciasse la via del Cenacolo. Conosceva molte malattie, persino i vermi e i cancri che si insinuavano nei corpi del malcapitati. Diceva sempre che un buon parassita non ha alcun interesse a far perire il suo ospite.

Almeno, non subito.

Represse un brivido. Il giorno dopo l’assalto, una volta scemato l’impeto feroce che li aveva animati, alcuni dei suoi erano impazziti. Urlando che la Nebbia si agitava dentro di loro, si erano gettati nei falò e poi dalle mura degli spalti.

Sciocchi e deboli.

Ecco perché non erano degni di mangiare le carni dei venerabili Troll. Non erano degni di servire sotto Zannaforte, l’Invincibile.

Il loro capo non aveva paura di niente e di nessuno.

Quasi nessuno, si corresse. Perché in realtà c’era una persona che Zannaforte amava e temeva più di ogni altra cosa. Come qualsiasi creatura venuta al mondo…

Come evocato dai suoi pensieri, Zannaforte emerse dal mastio centrale della rocca. La sua espressione era truce e, quando il suo sguardo si posò su di lui e sui suoi compagni, un ringhio feroce gli emerse dal fondo della gola.

– Cosa fate ancora qui!? – masticò a denti stretti. – Vi ho dato un ordine. Mi aspetto che venga eseguito!

Lui chinò la testa, come gli altri, esalando un reverenziale – Sì, potente Zannaforte! –, per poi affrettarsi lungo le gradinate che conducevano all’ingresso dei sotterranei.

La loro missione consisteva nell’esplorare le viscere di Ramana, ancora invase dalla Caligine. Lui non la temeva, anzi, percepirla sulla pelle gli dava una sensazione quasi familiare, come se la nebbia all’esterno entrasse in risonanza con quella che gli scorreva ancora nel sangue.

No, non era la Caligine che lo spaventava…

Era la terza spedizione a cui partecipava da quando avevano scacciato gli sciocchi bambocci della Masnade dalla rocca. La terza perché era un tipo fortunato. Zannaforte aveva ordinato di controllare tutte le stanze, batterle palmo a palmo se necessario, e prendere tutti i tesori degli Artefici.

Eppure la Magnirocca si era dimostrata parca di tesori, e invece piena di perigli.

Quel posto era ostile. Non era soltanto per il vago senso di minaccia che respirava in ogni stanza in cui metteva piede, né per la sensazione che ovunque ci fossero occhi che li osservavano malevoli, che persino le pietre delle pareti avessero orecchi, né per il sudore che gli scendeva lungo la spina dorsale non appena varcava la soglia che conduceva ai corridoi sotterranei di quella borgata.

No, lui aveva visto di cosa fosse capace quel posto!

Durante la sua prima discesa, il suo drappello era entrato in un salone con la volta a botte, adibito a magazzino e armeria. Lungo le pareti, file di armature erano schierate come un esercito pronto a marciare contro il nemico. Erano corazze di buona fattura, e avrebbero fruttato monete sonanti alla loro causa una volta vendute al mercato nero. Certo, sarebbe stato un peccato venderle tutte quante… ma non appena i suoi compagni le avevano rimosse dai loro sostegni e avevano provato a indossarle o portarle via, quelle armature diaboliche si erano animate come serpenti e si erano avvinghiate ai malcapitati. Lui non sapeva se li avessero stretti fino a frantumare le ossa, o se piuttosto fossero state intrise di qualche sostanza acida letale, ma aveva udito grida disumane alle sue spalle mentre fuggiva a gambe levate sulle rampe che riportavano alla superficie.

Era stato fortunato.

La seconda esplorazione non era andata meglio. Avevano raggiunto una forgia, nella speranza di poter carpire metalli preziosi o buone armi. Quando si erano avvicinati, però, le fiamme spente avevano di colpo ripreso vita e il pavimento si era trasformato in una fornace ardente. Tutti i novizi che non erano riusciti a uscire in tempo erano morti carbonizzati fra atroci sofferenze.

E lui era stato di nuovo fortunato.

La fortuna aiuta gli audaci, si disse, addentrandosi negli umidi sotterranei che sembravano affondare fino alle viscere stesse della terra, senza fine. La sua mente era ancora annebbiata, e in certi momenti si sentiva ancora invincibile. In altri… beh, poteva solo fidare nella sua fortuna.

Dopo aver superato diverse porte chiuse e piene di trappole magiche e mondane, con due sole perdite tra le loro fila, il gruppo raggiunse finalmente un enorme ambiente con la volte a botte. I fasci delle loro lanterne mostrarono file e file di scaffali di legno, su cui erano allineate centinaia di boccette, ognuna contrassegnata da un simbolo il cui significato gli sfuggiva. Non era un fottuto alchimista, lui, ma non ci voleva particolare ingegno per capire che avevano finalmente trovato la stanza dei prodigi alchemici: una delle maggiori ricchezze degli Artefici.

– Prendete tutto quello che potete! – ordinò ai compagni, che non si fecero pregare. Si divisero, e ognuno cominciò a setacciare un settore, afferrando le boccette e riversandole nei sacchi.

Zannaforte sarebbe stato soddisfatto del loro bottino, e forse avrebbe concesso loro di assaggiare il sangue o la carne dei venerabili Troll.

Con questa speranza, sollevò la lanterna sopra la testa, puntando il fascio di luce verso il soffitto. C’era un affresco ad abbellirlo. Nel buio, non lo aveva notato. Rappresentava una specie di ammasso di spine, al cui centro -o sulla cui testa?- campeggiava una maschera dorata, dietro cui si nascondevano occhi che parevano brillare nella penombra. Aveva un che di inquietante, e lui si affrettò a riportare lo sguardo verso il basso, verso ciò che gli interessava: i tesori degli Artefici. Che andassero nella Spirale i loro affreschi di cattivo gusto!

Un grido lacerò il silenzio della sala.

Lui sussultò e per poco la lanterna non gli sfuggì di mano. Riconobbe la voce di Jacob, il suo compagno, ma quando lo raggiunse…

Lo conosceva da molte lune, da quando avevano lasciato insieme la loro cricca, dopo la caduta di Nebin e la sconfitta della Fauce, per unirsi al Cenacolo. Eppure anche lui ebbe difficoltà a riconoscerlo in quel momento, dato che la sua faccia pareva essersi sciolta, e ciò che ne restava era un grumo rivoltante in cui i bulbi oculari erano esplosi e si mischiavano a naso, bocca e denti mentre gocciolavano sul pavimento.

Lui avrebbe vomitato, se la Nebbia non avesse riso dentro di lui, ricordandogli che non poteva morire, che era fortunato.

Per il momento.

Lui si allontanò dall’amico morente con una smorfia. – Controllate che cazzo c’è qua dentro, e state attenti! – si limitò a ordinare, riprendendo la sua ricerca tra gli scaffali. La sensazione di essere seguito, osservato, giudicato si era fatta ancora più forte, quasi opprimente, ma per quanto ruotasse il fascio della lanterna, intorno a sé non vedeva altro che i propri compagni.

Fanculo! Pensa soltanto agli ordini di Zannaforte, e alla ricompensa che otterrai!

Era passato circa un giro di clessidra, quando il tintinnio del vetro che si rompe e un nuovo grido attirarono la sua attenzione. Questa volta si trattava del compagno che stava rovistando negli scaffali poco lontano da lui: se ne stava in piedi, immobile, l’idiota… solo con un attimo di ritardo, lui si accorse che i suoi piedi erano diventati di pietra, e fusi con il pavimento sottostante.

– Che state aspettando? Tiratelo via di lì!

In due lo afferrarono per le spalle e provarono a spostarlo, con il solo risultato di rompergli entrambi i piedi. Dai moncherini spezzati cominciò a fuoriuscire un fiotto di sangue scuro, e le grida si fecero più alte, almeno per un po’, per quindi affievolirsi, mentre il malcapitato moriva dissanguato.

Ma lui era già lontano.

Del resto, le altre volte era sopravvissuto perché era stato il primo a fuggire.

Aiutati, che nessun altro ti aiuta!

Corse verso la porta della sala, inseguito dal continuo rumore del vetro che si infrangeva sul pavimento, o contro i suoi compagni. Le fiale di quel posto adesso sembravano cadere da ogni parte, o c’era qualcuno o qualcosa che le lanciava…

Afferrò la maniglia della porta chiusa – chiusa? Ma chi cazzo l’ha chiusa…? – e tirò con tutte le sue forze.

Il battente non si mosse di un millimetro.

Solo allora si accorse dei frammenti di vetro ai suoi piedi, e che sulla maniglia era stato versato qualche liquido. Con un gemito raccapricciato, provò a ritrarre la mano.

Provò di nuovo.

Ancora.

Inutilmente.

La mano era incollata alla porta da chissà qualche oscuro maleficio degli Artefici, o di colui che conferiva il suo portento alla Camarilla.

– Staccati! – gracchiò, tirando con tal forza da quasi staccarsi la mano, mentre folle ferocia e isteria si mischiavano insieme. Infine si voltò.

E vide.

Vide l’ammasso di spine e rose con la maschera dorata, non più semplice dipinto sul soffitto, ma demone vendicativo nella sala. Vide i suoi compagni perire a uno a uno, mentre l’essere scagliava contro di loro i suoi artifizi.

Poi la creatura prese a scivolare lentamente verso di lui…

Con il sorriso soddisfatto di chi ha punito severamente dei bambini beccati con le mani nel sacco a toccare dei giochi proibiti, Ermete l’Aureo distolse lo sguardo dallo specchio, che tornò a riflettere la sua figura invece che mostrare i sotterranei della Magnirocca. Lasciò scemare il suo legame con Feron e si voltò verso la silenziosa presenza di Alpan la Saggia, la Sorella che dietro sua richiesta lo aveva aiutato ad approntare il rito divinatorio.

– Nessuno nella Scacchiera è fortunato tre volte – sancì.

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