Sangue sulle mani

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Notte Decima Nona della Luna di Sirio, Anno 5 ER

Magnirocca, Ramana

Terminò di ricucire l’ultima ferita, un orribile squarcio sul ventre provocato dalle lame di quei fanatici mangia-troll inneggianti al Cenacolo, quindi cominciò a riporre nella scarsella con meticolosità i ferri del mestiere.

– Vedi di stare più attento, la prossima volta – commentò – O non riuscirò a rimettere a posto tutti i pezzi del tuo intestino.

– Bah, è sufficiente che mi rimangano abbastanza budella per riempirle di birra – gracchiò Nick Tre–Colpi (gli piaceva decapitare gli imperiali con calma, per farli soffrire di più), sollevandosi su un gomito dal giaciglio dell’ospedale da campo, improvvisato al centro dell’accampamento del Crepuscolo. Le rivolse un sorriso riconoscente. – Comunque grazie, Cristilde…

Lei si limitò ad annuire, si passò la scarsella da cerusico sotto braccio e scostò il lembo della tenda, allontanandosi tra i fuochi del campo.

Perché mi ringrazi? Ti ho salvato, per oggi, per farti tornare in battaglia a morire domani, o tra una settimana, o tra una luna, che importanza ha?, avrebbe voluto gridargli. Ma non lo fece. Non lo faceva mai. A volte, quando usciva dalle tende dei feriti o lasciava le fosse in cui aveva seppellito i suoi compagni, come all’alba dopo la battaglia di Nebin, le parole ingoiate erano uccelli neri che le scavavano la gola, e temeva che prima o poi l’avrebbero soffocata.

Si accostò al bacile d’acqua e cominciò a sfregarsi le mani per lavarsi dal sangue che le impregnava. Per quanto si impegnasse, le sembrava che non se ne andasse mai via del tutto. Le capitava spesso di svegliarsi di notte, madida di sudore, con l’orribile sensazione di avere le mani macchiate di sangue. Nei suoi sogni – no, nei suoi incubi! – lo lavava, lo lavava, fino a scorticarsi la pelle, ma era sempre lì, a deriderla, a ricordarle…

Scosse la testa e si raddrizzò. I fuochi dei bracieri ancora brillavano sugli spalti della Magnirocca di Ramana. Zannaforte e i suoi seguaci festeggiavano la loro vittoria. Un fumo sottile, dal colorito malsano, si levava da quelle rocce arroccate sull’altura, e solo fissarlo provocava una profonda inquietudine e un senso di nausea che attanagliava le viscere. La vena di Caligine continuava a vomitare i suoi tremendi influssi e aveva ormai contaminato quel suolo e le sue fonti elementali. La rocca era perduta, per quanto a tutti loro seccasse ammetterlo. Non avevano più nulla da fare lì, e sarebbero partiti l’indomani mattina all’alba per seguire le altre commissioni dell’Altomastro.

Sempre che Ottavia torni.

Il pensiero le provocò una fitta dolorosa nel petto. Non la vedeva dalla sera prima, da quando Vinicio le aveva raccontato quanto appreso sul suo presunto passato, dannazione a lui e alla lingua facile di Hetzi!

Il ricordo del loro alterco le bruciava ancora. Eppure, cos’altro avrebbe dovuto fare? Vinicio ormai era uno di loro. Aveva accettato la spilla, aveva vergato il proprio nome sul registro del Crepuscolo. Era uno dei Ragazzi, ormai. “Come un sol braccio, fino alla fine”, recitava uno dei capisaldi della masnada. Questo contava più delle parole di un imperiale che si fingeva pentito, e che poi, a sentire Balthazar, si era dimostrato comunque un fottuto bugiardo.

Dannazione anche a lui! Avrei dovuto strappargli la lingua, invece di guarirlo dalla cecità!

Ma in realtà Ottavia non era arrabbiata tanto con quel bastardo a cui aveva staccato la testa, o con Vinicio: era arrabbiata con lei. Cristilde sapeva di averla ferita. Niente faceva più male della cruda verità.

Perché perdiamo tempo a ucciderli, se ci comportiamo come loro?, le aveva gridato. Come poteva una persona che un tempo era stata disposta ad accettare come sua la figlia di uno spregevole stupratore imperiale, esser pronta a uccidere sul posto un compagno sulla base della calunnia di uno sconosciuto?

Cristilde li odiava. Odiava coloro che l’avevano resa così. E odiava se stessa per essere così impotente. Era come guardare una farfalla bellissima che si gettava tra le fiamma per consumarsi, e non poter far nulla per evitarlo.

Si asciugò le mani con uno straccio e gettò un’ultima occhiata lungo il campo, sperando di intravedere il suo cappello piumato, i capelli color del grano maturo, l’ombra del suo mazzafrusto. Sospirò. Era sciocco preoccuparsi: Ottavia sapeva badare a se stessa, il più delle volte, e comunque c’erano Francisco e gli altri Ragazzi con lei. L’avrebbero protetta a costo della vita.

Si avviò a passo stanco verso la propria tenda e quasi inciampò nei piedi di Aldo, che si era buttato a dormire sul nudo terreno vicino alle selle dei cavalli, e puzzava di alcol e di cuoio ingrassato in egual misura.

– Che cazzo…- sbottò il tamburino della masnada, strizzando gli occhi per metterla a fuoco nella penombra. – Ah, Cristilde, mi hai riportato il mio tamburo?

Dopo la furiosa litigata con Ottavia, il tamburo con cui aveva suonato insieme a Cyra, Lana e Iena era stato l’ultimo dei suoi pensieri.

– Credo sia ancora nella mia tenda.

Aldo le lanciò un’occhiata truce. Era un tipo dinoccolato, con i capelli chiari e il naso pronunciato. Veniva da Khantas, ma non si era mai presentato con un cognome nella Scacchiera, e a chi faceva domande rispondeva con un brusco “e poi fatti i cazzi tua!”. E così aveva scritto anche nel registro della masnada, per mettere le cose in chiaro.

– Guarda che quel tamburo si chiama Pietro e torna indietro. Domani lo rivoglio, altrimenti trovati un altro strumento da suonare, la prossima volta!

Cristilde scrollò le spalle. Aveva imparato a suonare il clavicembalo, quando ancora viveva ad Arath, dove la musica era parte obbligata della formazione della figlia di un nobile, per quanto illegittima. Quando ancora le sembrava di dover sempre dimostrare qualcosa a qualcuno, ed era pronta a tutto pur di far vedere a suo padre quanto valesse. Sembrava passata un’eternità da allora… e la Scacchiera non era certo il posto adatto per portarsi dietro un ingombrante clavicembalo.

Lasciò Aldo a borbottare tra sé e con i cavalli – sbronzo com’era, era probabile che li scambiasse per lei o per gli altri compagni – e finalmente raggiunse la tenda, capendo nello stesso istante in cui i suoi occhi si posavano sul giaciglio che non sarebbe mai riuscita a prendere sonno.

Ma chi voglio prendere in giro? È sciocco preoccuparsi, ma sono preoccupata comunque! Ottavia, dove accidenti sei finita? Se sei riuscita a farti ammazzare, giuro che, giuro che…

Si lasciò sfuggire un sospiro affranto e, per distrarsi da quel pensiero, si accostò alla rozza scrivania traballante in fondo alla tenda. Sparpagliati sul piano, gli appunti con le note e le parole delle canzoni che aveva approntato insieme a Cyra la Gazza (o Cyra la Bona, appellativo che sembrava essersi appiccicato addosso al Cadetto dello Spiantato dalla sera prima…). Una nuova melodia le ronzava nella testa, insieme alle idee per qualche nuova ricetta in grado di lenire le ferite, e tanto valeva buttar giù qualcosa. Forse, se avesse gettato sulla carta un po’ di quello che aveva dentro, sarebbe riuscita a non impazzire per un altro po’.

Scostò i fogli e il suo sguardo si soffermò sul testo della canzone che avevano dedicato a Ottavia.

Per tutto il sangue che ho versato,

per tutti gli angeli caduti,

per Lei e per il Regno

oggi la pagherai!

La fitta alla tempia la colse di nuovo a tradimento. Cristilde barcollò, sostenendosi alla scrivania con una mano.

Passò, rapida come era venuta, lasciandole solo l’eco di un martellio fastidioso, e una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco.

Mentre riprendeva fiato, comprese di non essere più sola all’interno della tenda e sollevò di scatto la testa.

Ottavia era lì. Un passo oltre la soglia. In piedi, immobile come una statua, il volto scolpito dalle luci e dalle ombre danzanti scaturite dal chiarore del braciere, i vestiti e le armi imbrattate di sangue ormai rappreso.

Così bella e terribile da far male.

Rimasero a fissarsi per un lungo istante, in un silenzio così forte che sembrava rumore. Fu Ottavia a parlare per prima.

– Stai bene? – domandò.

Cristilde scrollò le spalle. – Disse quella ricoperta di sangue dalla testa ai piedi…

Ottavia emise un grugnito. Avanzò nella tenda, si sfilò il cinturone con la spada dalla vita, gettandolo al suolo, e andò a riempirsi il corno dalla brocca di birra sulla scrivania. – Che novità? Caduti alla rocca?

– Greg, uno dei Ragazzi nuovi, ma non c’è stato bisogno del tuo Congedo. È tornato tra noi grazie alle stregonerie degli Esoteri.

Ottavia annuì, buttando già il contenuto del corno in un sorso rumoroso. – Credevo di trovare quell’elfa nella tua tenda. Come si chiama? Xorba…

– Direi che Xorba ha già abbastanza cicatrici nel cuore per finire invischiata nei nostri problemi, e comunque sarebbe più interessata alla tua compagnia che alla mia – ribattè Cristilde, rammentando la breve conversazione avuta con l’elfa durante il banchetto alla rocca. – Tu invece chi hai portato nella tua tenda?

Si pentì subito di averlo chiesto. Ottavia bevve di nuovo. – Sei gelosa?

Cristilde non rispose. Sapeva di non averne il diritto.

Di nuovo quel silenzio tra loro, e stavolta lei non riuscì a sopportarlo. – Mi dispiace – proruppe, tutto d’un fiato – Mi dispiace di averti ferito. Non ho il diritto di giudicarti. So che farai la scelta giusta per la masnada e…

Non poté continuare. Ottavia la raggiunse, la attirò in un forte abbraccio e premette le labbra contro le sue. Sapevano di sangue, alcol e disperazione, e fu come sentirsi a casa.

Quando si staccò, Cristilde provò ancora a spiegarsi, ma Ottavia le rivolse un’occhiata feroce.

– Sta’ zitta! – ordinò – E toglimi questa cazzo di armatura di dosso, prima che mi si appiccichi davvero alla pelle!

Con il primo sorriso della giornata sulle labbra, Cristilde obbedì.

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