The way

Share Button

“Una buona manutenzione è la base per un’arma funzionante.” Navarre gliel’aveva detto mille volte a Isabeau da quando era entrata a far parte degli Zakhody. Prendersi cura delle gargolle e dei fucili era il compito basilare che ogni buon pistolero doveva svolgere quotidianamente e lui ne aveva fatto quasi una ragione di vita. Giorno dopo giorno, con panno, olio e concentrazione Navarre si sedeva al suo tavolo, disponeva le sue armi innanzi a sé e le sistemava. Pezzo per pezzo, dettaglio per dettaglio, niente sfuggiva alla sua cura. Non una vite allentata, non una molla insufficientemente in tensione, non una riga nella canna scappavano al suo sguardo. Più di una volta aveva compiuto quel lavoro assieme a Isabeau e aveva visto che l’attenzione della donna era quasi pari alla sua, e quello che non possedeva di abilità lo compensava in entusiasmo. Quando Navarre esaminava le gargolle della compagna era quasi sempre soddisfatto; non poteva fare altro dunque che stupirsi tutte le volte che quelle dannate pistole facevano cilecca. Sembrava una maledizione, tanto era illogica e senza spiegazione la cosa.

Forse, però, adesso capiva. Aveva recuperato l’arma di Isabeau e l’aveva pulita, un po’ per calmare i nervi, un po’ per abitudine. Con calma certosina aveva tolto ogni traccia di sangue fino a far splendere il metallo, e poteva dire con certezza che quell’arma era perfetta. Si alzò dalla sedia e con gesti precisi caricò la gargolla di polvere da sparo, quindi inserì il proiettile. Caricò il cane, puntò verso un paglione e sparò. Un CLIC sordo provenne dall’arma. Cilecca, ancora cilecca, ma Navarre aveva compreso. Quell’arma sapeva quale sarebbe stato il suo destino, ovvero infilare una pallottola in testa a Isabeau. Non lo avrebbe mai voluto fare, e per tutta la sua esistenza aveva combattuto contro quella sorte che la attendeva, cercando di non funzionare come avrebbe dovuto. Il destino era però stato ineluttabile.

Navarre avvolse l’arma in un panno e la depose in un piccolo scrigno. Era davvero una buona gargolla.

They made up their minds

And they started packing

They left before the sun came up that day…

Jagosh si svegliò di soprassalto. La piccola stanza della locanda era buia e dalle imposte arrivava a malapena un filo di luce. Doveva mancare poco all’alba ormai. Si sentiva la bocca secca e la testa gli pulsava debolmente, come succedeva di solito nell’ultimo periodo. Con un mezzo grugnito si alzò dal letto e si stiracchiò. Cosa l’aveva svegliato? Un sogno? Un incubo? Il fatto che ultimamente dormiva sempre meno?

Cercò la caraffa dell’acqua a tentoni sopra il canterano e ne bevve generose sorsate. Sprazzi di pensieri gli si agitavano in testa, impressioni, voci dissonanti e discordanti. Ogni tanto gli raccontavano segreti che gli facevano ribollire il sangue, altre volte lo calmavano, ma adesso sembravano parlargli direttamente.

“Dove eri, Jagosh?”

La voce debole di Isabeau, quasi un lamento, gli sussurrava nel fondo del cervello. Jagosh  lo sapeva che non poteva essere veramente la voce della donna. Non perché lei fosse morta, ma perché non avrebbe mai usato quel tono. Isabeau aveva compiuto una scelta e non avrebbe mai recriminato a nessuno di non aver fatto niente per lei in quel momento. Aveva deciso ed era arrivata sino in fondo. Nessuno avrebbe mai saputo tutti i motivi che l’avevano condotta a quel gesto, ma il punto era che erano motivi di Isabeau, la quale non li avrebbe mai scaricati su altri.

La domanda però continuava a vagargli dentro. “Dove eri, Jagosh?” Lui era quello che si prendeva cura degli altri Zakhody, e non solo delle loro ferite. Era una testa calda, è vero, ma quando c’era da ascoltare gli altri lui c’era sempre. Tranne che quel giorno per Isabeau. Perso dietro al sapore del sangue, al vortice di una magia che si agitava dentro di lui e nemmeno comprendeva appieno, Jagosh sapeva di non esserci stato. Sarebbe bastata una parola per distogliere la compagna da quel gesto finale? Una spalla su cui piangere? Un sorriso? Non lo avrebbe mai saputo, ormai.

Nella penombra della stanza, una figura ricambiava lo sguardo di Jagosh dallo specchio, ma lui non riusciva più a riconoscerla.

An exit to eternal summer slacking

But where were they going without ever

knowing the way?

Lo sguardo di Scarlet vagava nelle profondità di un bicchiere di vino rosso. Seduta all’esterno della locanda, sotto una generosa pergola di passiflora, la ragazza inspirò l’aria della breve e feroce estate khartasiana. Il vento portava l’odore del mare con appena una nota di acre fumo di legna, forse la combinazione più tipica di Port Anchor. Scarlet alzò gli occhi verso il cielo notturno; le sembrò come al solito freddo e distante, distaccato, imparziale. Non riusciva a capire come qualcuno potesse guardare in alto, a quella distesa buia e profonda, e credere che lassù si nascondesse qualcosa di salvifico. Era solo vuoto, un vuoto vertiginoso e devastante, come fauci pronte a inghiottire tutto. Con una mano, Scarlet si spostò un ciuffo di capelli dagli occhi. La testa le girava debolmente. Il maledetto oste doveva aver allungato il vino con qualche schifezza. Sbuffò, scocciata.

Silenziosamente, come un’ombra bianca tra le tenebre, la figura di Eliot si materializzò accanto a lei. La donna aveva una brocca di terracotta in mano e una rozza tazza di legno. Senza dire niente, si sedette nella sedia accanto a Scarlet e si riempì la tazza fino all’orlo di vino rosso. Scarlet notò che aveva un colore e un profumo migliore del suo.

– Conosco l’oste – commentò Eliot distrattamente – e so dove tiene il vino buono. Prendi.

Anche il bicchiere di Scarlet fu riempito, e le due donne provvidero a svuotare in un sorso le loro coppe. Entrambe fissavano l’orizzonte, senza proferire parola. La notte e il silenzio avevano ormai accolto il porto come una coltre pesante, e gli avventori della locanda andarono a casa uno dopo l’altro. Anche quando l’oste chiuse a chiave la porta d’ingresso, le due donne erano ancora lì. Scarlet frugò nella sua scarsella ed estrasse la sacca del tabacco.

– Ora che Jagosh è partito di testa speravo in Isabeau come compagna per le pause – Scarlet scrollò la testa, mentre si preparava una sigaretta. – Trovare qualcuno con cui fumare diventa sempre più difficile.

Eliot si voltò. Sul viso di Scarlet, illuminato per un’istante dalla fiamma fugace di un fiammifero, riconobbe la dolorosa espressione di chi aveva troppo che gli si agitava dentro ma che si era ripromesso di non dare spazio a quelle emozioni. Le donne sospirarono entrambe, allungando i piedi sopra il tavolo e spingendo indietro lo schienale della sedie. Un filo di fumo sottile si alzava a lente volute verso il cielo.

They drank up the wine

And they got to talking

They now had more important things to say…

Avvolta solo in un lenzuolo di delicata seta, Valerie si stava spazzolando i capelli dinnanzi al piccolo specchio della sua toletta, alla luce di deboli candele rossastre. Diego, sereno e appagato, russava beatamente nell’ampio letto alle sue spalle, come in un nido di lenzuola arruffate. La ragazza sorrise, guardandolo di sghembo. L’idea che in questo triste mondo ci fosse qualcuno capace di  mettere da parte i propri pensieri e di essere felice anche solo per un’istante era come un balsamo lenitivo, in questo momento. Lei, invece, si sentiva in equilibro su una sottile corda, tesa sopra un mare di disperazione. Troppe cose erano successe in poco tempo. La rivoluzione a Valdemar. La cancellazione dei titoli nobiliari. Il rapimento di Madame Cécile. Isabeau. Soprattutto Isabeau. Solo il pensiero della sua amica che si era tolta la vita fece quasi cadere la spazzola di mano a Valerie.

Quanto dolore, Isabeau. Valerie non voleva nemmeno provare a immaginare quanto fosse straziante ciò che aveva portato la donna a compiere quel gesto. Quanta angoscia deve possedere una persona per arrivare a pensare di voler porre fine alla propria vita? Quale determinazione a volerla finire deve avere qualcuno per riuscire a portare quel gesto fino in fondo? Per voler rinunciare a tutto?

Un pensiero sembrò fare breccia all’improvviso nella sua inquietudine. Valerie non voleva rinunciare a niente. Stava male in quel momento, è vero, ma quel dolore era la prova che in quel momento lei era viva. Ogni emozione che provava, ogni lacrima, erano i testimoni del suo qui e del suo ora. Aveva fame, fame di quella vita, nonostante le difficoltà, nonostante il dolore. Forse era stato questo il lascito di Isabeau per lei, farle ricordare quanto volesse essere viva e quanto voleva combattere per ciò che aveva, con tutto quello che poteva costare.

Valerie arrivò sino al letto. Si adagiò con calma accanto a Diego, abbracciandolo da dietro.

– Vale, que pasa? – mugugnò l’uomo teneramente. – Todo bién?

– Sì, Diego, va tutto bene – replicò lei, chiudendo gli occhi con un sorriso.

And when the chart broke down they started walking

Where were they going without ever

knowing the way?

Il rumore ritmico dei colpi risuonava per tutto il campo d’arme, nonostante l’ora precoce. Il sole era appena sorto debolmente e i primi raggi trovarono Lucien già in piedi, intento ad allenarsi. Un manichino da armature non era granché come compagno di scambi, ma era anche l’unica alternativa disponibile a quell’ora. Cercava di scacciare i pensieri con la fatica, quei pensieri che rendevano il suo sonno agitato, ma questi trovavano sempre un modo di strisciargli addosso. Colpì il manichino con foga, tentando una combinazione di fendenti che poteva risultargli utile in battaglia. Era suo compito essere al massimo della forma per fungere da scudo per i suoi compagni e per ciò a cui teneva.

I suoi compagni. Pensò ai membri del gruppo da lui fondato, gli Zakhody. In lingua khartasiana, quella parola significava “randagi”. Sembrava un nome da duri. Lo senti e già pensi a mercenari scafati, pronti a tutto e a vendersi al miglior offerente, pronti a seguire il vento della battaglia dove li portavano i soldi. Poteva essere così, ma non era assolutamente così. Gli Zakhody erano veramente randagi, gente persa, senza una direzione. Chiunque, se preso da solo, è così. Eppure, gli Zakhody erano soprattutto una dimora. Erano il posto in cui non essere più randagi, più persi, più soli. O almeno esserlo meno. O almeno esserlo insieme. Con tutte le differenze tra i suoi membri, gli Zakhody erano un gruppo e si erano completati a vicenda; Lucien era fiero di farne parte e come fondatore (e riluttante guida) se ne sentiva responsabile.

Per questo non riusciva a placare quella furia. Ne capiva le origini, la comprendeva, ma non per questo riusciva a placarla. Uno Zakhody si era perso. Che si fosse allontanato dal branco, o che il branco lo avesse lasciato indietro, il risultato era lo stesso. Isabeau aveva lasciato gli Zakhody e questo mondo nel più definitivo dei modi possibili. In un momento in cui nessuno era con lei, da sola, aveva reciso tutti i fili che la legavano agli altri; fili che adesso si dimenavano come serpenti decapitati, in cerca di un significato e di una spiegazione. Fili che rischiavano di intricarsi, di legare chiunque ci fosse vicino. Una storia che non trova il suo senso rischia solo di strozzare chiunque si trovi troppo vicino a essa, e da essere legato a essere strozzato il passo è breve. Lui, però, non avrebbe ceduto.

Avrebbe combattuto. Avrebbe difeso e protetto ciò che aveva vicino, perché nessuno Zakhody si fosse perso mai più. Perché lui, Lucien, non voleva più perdere altro.

Anyone could see

The road that they walk on is paved in gold

And it’s always summer, they’ll never get cold

They’ll never get hungry

They’ll never get old and gray

Hari era sempre stato un animale abitudinario. Quando qualcosa era fuori posto lui sentiva il bisogno di mettere in ordine. Bastavano piccole cose che non fossero dove dovevano essere e lui subito si agitava ed entrava in ansia; per questo riordinare era un ottimo momento per riprendere il controllo di sé stesso.

Aveva svuotato il tascapane sul tavolo della sua stanza. Aveva riordinato gli scritti in suo possesso in rotoli divisi per argomento e data generale. Aveva infilato su un filo di spago le poche idre e falconi che portava con sé per eventuali spese improvvise. Aveva ripulito il piccolo ramo di liszt che portava sempre con sé dai pezzi di corteccia che stavano per staccarsi. Aveva ritrascritto sul suo diario personale gli appunti che aveva sparso in giro. Poi, aveva trovato la striscia dei simboli degli Zakhody.

Era un simbolo più per loro che per il mondo esterno. Ogni Zakhody su quella striscia aveva messo qualcosa che lo identificasse. Una perla, una spilla, un simbolo, qualcosa che parlasse di lui al resto del gruppo. Otto simboli erano presenti sulla striscia, per tutti i membri della compagnia, anche quelli poco presenti come Chavi. Eppure, mancava il simbolo di Isabeau.

Isabeau era l’ultima entrata negli Zakhody, ma non per questo meno amata, anzi. Probabilmente era entrata soprattutto per la stima, il rispetto e l’affetto che ognuno di loro provava nei suoi confronti. Era diventata subito una di loro in tutto e per tutto. Eppure, la donna non aveva ancora fatto in tempo a trovare qualcosa da aggiungere al simbolo degli Zakhody, e ora non ce l’avrebbe mai fatta. Dagli oggetti presi alla rinfusa dalla sua borsa, Hari prese una piccola perla bianca dalle screziature viola. L’aveva presa al mercato di Port Anchor e aveva pensato di sottoporla a Isabeau se potesse essere adatta per simboleggiarla. Era una perla piccola ma splendente, di grande valore, e chissà perché faceva stare bene chi le era vicino. Sembrava molto adatta per Isabeau.

Eppure, ora non sarebbe servita più. Hari prese la perla e la ripose in un cassetto, quello dove stavano quelle cose che non avrebbero mai trovato posto.

You can see their shadows

Wandering off somewhere

They won’t make it home

But they really don’t care

They wanted the highway

They’re happy there today, today

Share Button

Commenti

commenti

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.