Una notte come tante

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Era riuscita a metterla a letto, alla fine: non era in grado di spiegarsi come Cristilde, con quel fisico da intrecciatrice di cestelli che si ritrovava, potesse opporre tanta resistenza al farsi aiutare, anche in stato di semi incoscienza.

Adesso sembrava morta, tanto il suo respiro era impercettibile, ma Ottavia non si preoccupò a riguardo: le poche volte che si era addormentata dopo di lei l’aveva vista esattamente così, rigida come un cadavere.

Se stesse vivendo degli incubi o un sonno beato, da fuori era impossibile capirlo, quindi si sedette all’ingresso dalla sua tenda, aguzzando l’orecchio verso qualunque rumore sospetto, determinata a vegliare su di lei per tutta la notte: un piccolo focherello e qualche sorsata – parecchie sorsate! – di un buon liquore era tutto ciò di cui aveva bisogno per fronteggiare ogni genere di evenienza.

Chi voleva prendere in giro? Andava bene anche un liquore scadente.

Era notte fonda ormai quando la giovane donna dai capelli rossi le si sedette vicino: fissarono entrambe l’orizzonte per un po’, poi Ottavia tirò fuori il rospo.

“Non l’amerò mai quanto merita.”

Lo disse a voce alta, e suonò liberatorio esattamente come poche ore prima: la donna le fece un cenno con la testa, in segno di comprensione.

“Il momento è prossimo, lo sento: non siamo mai stati così vicini all’Immacolato e lei lo sa, sa che per me non c’è niente dopo.”

Fece un respiro profondo e una lunga pausa. La donna accanto ad Ottavia le si avvicinò ancora di più, prendendola sotto braccio.

“So che se la caverà anche senza di me, ma io non voglio solo che se la cavi: voglio che sia felice, che trovi qualcuno che le faccia capire quanto migliore può essere la vita, qualcuno che la desti da questa specie di spirale distruttiva che comporta stare al mio fianco.”

La donna dai capelli rossi fece per protestare, ma Ottavia fermò quel tentativo sul nascere: “Lo so che è un’adulta, lo so che è piuttosto sicura di sapere cosa vuole, ma questo non significa che io non possa desiderare di meglio per lei… Forse pensa che questa specie di tortura che si autoinfligge sia il massimo, ma io e te sappiamo che non è così”.

La donna la guardò dubbiosa.

“Hai ragione, c’è dell’altro: lo sento come guarda e sai cosa? E’ un peso che non riesco più a sopportare: tengo a lei, moltissimo, ma anche se dice di non aspettarsi niente di più io so che non è così. Lo sento e sono stanca di sentirmi in colpa per questo. Sì, perché il problema è che l’amore è amore per davvero solo quando è completamente corrisposto, altrimenti è un coltello e solo una parte tiene il manico mentre l’altra si ferisce, continuamente… E sono così stanca delle armi… per quanto mi ritrovi sempre ad averne una tra le mani…”

Questo non era stato affatto liberatorio: si sentiva un mostro anche solo ad aver pensato quelle parole, figuriamoci ad ammetterle ad alta voce.

Si mise a fissare il fondo della bottiglia di liquore scadente che era riuscita a recuperare: se l’avesse incontrata in un altro momento della sua vita, sarebbe stato diverso? Aveva senso un ragionamento simile, considerato cosa era stata la sua vita? Ovviamente no.

“Senza contare che non mi resta molto in ogni caso, magari nemmeno ci arrivo a spaccare in due quella maledetta testa di ca…”

Si bloccò, la sua interlocutrice non gradiva il linguaggio scurrile, a giudicare dalla faccia che stava facendo: poteva percepirla anche senza guardarla.

“Dicevo, comincio a perdere colpi, sai? Una volta ero in grado di dividere in due un uomo tre volte più grosso di me: mi bastava un colpo, pesante ma preciso e letale. Adesso faccio fatica ad assestarne uno messo bene, figuriamoci se riesco ad aprirci in due chicchessia… Non sono in grado di camminare dritta da anni e ho allucinazioni, continuamente: vedo… cose del passato… persone del passato…”

Giù un altro sorso: se non beveva sarebbe morta assiderata, garantito, anche se aveva una vaga rimembranza che Cristilde le avesse detto, più volte, che quella storia di ubriacarsi per sopravvivere al freddo era un’emerita cazzata. Magari non le serviva per sopravvivere al freddo.

“Sempre più spesso, durante uno scontro, mi capita di fissare la mia mano dritta tremante e ultimamente sono così lenta che ogni distrazione potrebbe essere l’ultima. Guarda, anche adesso.”

Sollevò il braccio al quale la donna fulva era abbarbicata, quel tanto che bastava a mostrarle la mano tremante, ma senza concederle la possibilità di staccarsi da lei: in effetti, un carro ricolmo di vettovaglie che attraversava un selciato dismesso sarebbe apparso più stabile.

“I Ragazzi, quelli che mi conoscono da più tempo, se ne sono accorti: perfino quel coglione di Francisco ha dei sospetti. Non guardarmi così, se se n’è accorto lui, sono fregata! Dicono che vogliono stare vicino alla loro condottiera quando sono sul campo di battaglia: la verità? Vogliono assicurarsi che non mi falci una gamba da sola… Farò la fine di Aldo, cazzo, se qualche fottuto mostro non mi sbudella prima…”

Si voltò per guardarla sorridere: sapevano entrambe che senza qualche parolaccia scurrile i suoi discorsi perdevano il loro fascino.

“Maledetti siano tutti gli Astri: mi manca da morire il tuo sorriso.”

Le due si fissarono, come se si conoscessero da una vita.

“Sai cosa? E’ giusto così: devo solo arrivare all’epico scontro finale. Nel mezzo c’è da risolvere qualunque male torturi Cris e sistemare la Masnada: anche se sono sicura che i Ragazzi faranno un buon lavoro, su entrambi i fronti. Gli Astri mi sono testimoni, mi sono letteralmente bevuta la vita, e va bene così perchè in tutta questa spirale di follia e violenza ho un solo rimpianto: avrei preferito morire dieci anni fa al tuo fianco che vivere un solo attimo senza di te”.

Amanita avvicinò la testa alla sua: poteva sentire il suo respiro caldo tonificarla.

Se glielo avessero chiesto, avrebbe giurato che la sua amata era stata lì, quella notte come molte altre notti passate e future, nonostante l’orrore del loro ultimo saluto continuasse a trascinarla sempre più a fondo nel baratro.

“Cazzo, Ottavia, ma da quanto sei qui fuori? Ti sarai congelata il culo! Che schifo, quanto hai bevuto per non essere morta assiderata?!?”.

Un altro che non aveva ancora imparato niente da Cristilde.

“Fanculo, Francisco! Ma io ci vengo a giudicare quelle disperate che ti porti in tenda tutte le sere?!? No! Ecco, e allora smamma, vado a riprendere un discorsetto”.

Agguantò la fiasca per fugare ogni dubbio nel suo adorato Ragazzo: avrebbero detto che si era scolata la peggior schifezza in circolazione tutta la notte e che non riusciva a stare in piedi per i postumi.

Andava bene così: erano le prime luci dell’alba e, scostando la tenda, vide Cristilde nella stessa posizione esatta nella quale l’aveva lasciata. Missione compiuta.

La verità, superflua il più delle volte, era forse peggiore per tutti… ed era sicuramente peggiore per lei.

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