Nebin – Ospitalità e pregiudizi

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Per gli Astri! Per la Piaga! Poco importava a cosa appellarsi una volta sprofondati in un simile incubo… il giovane ragazzo, un volto paffuto spruzzato d’efelidi, era ormai con le spalle al muro.

L’eco degli inesorabili passi echeggiava sul fondo del lungo corridoio e per uno strano scherzo della sorte sembrava avere il medesimo ritmo del suo cuore. La cantina puzzava di muffa. Uno spesso deposito di salnitro s’arrampicava sulle pareti sin quasi a lambire il soffitto da cui pendevano macabri festoni di carne appesi a reti di ruvido spago. L’inseguitore sarebbe apparso entro pochi attimi e un folle terrore stava divorando gli ultimi brandelli di lucidità che gli restavano… non c’era scampo!

Lo sguardo che vagava in ogni angolo come una mosca impazzita infine colse una stretta feritoia quasi del tutto coperta da uno spesso strato di ragnatele. Subito si lanciò sui barili che stavano sotto l’apertura. Per disgrazia urtò uno scaffale e una cascata di roba viscida cadde giù, impregnandogli le scarpe… non voleva sapere cosa fosse: i passi si fecero più rapidi.

La finestra era stretta e il suo ventre aveva goduto fin troppo dei prelibati pasti che quella strana gente gli aveva offerto. Ora immaginava perché fossero stati così generosi.

Imprecò sommessamente… niente da fare, si era incastrato! Chi era sulle sue tracce ormai l’aveva visto, ne era sicuro. Lo avrebbe trovato così, metà di lui appesa in cantina come quegli orrori impiccati al soffitto e il resto fuori da quello scuro seminterrato oltre cui c’era la libertà… presto lo avrebbe acciuffato e allora sarebbe iniziato il supplizio.

In un ultimo gesto disperato le mani artigliarono il terreno, i bottoni del panciotto cedettero come fagioli sgranati… esibendosi nella grottesca parodia d’un parto, sgusciò fuori ritrovandosi nel cortile. Pochi attimi dopo una mano pallida, coperta di tatuaggi uscì dalla finestra, artigliando la gelida aria della notte.

Fuggì senza guardarsi indietro ma il fiato fu presto rotto dalla sua pingue mole. Si ritrovò ad appoggiarsi alla soglia di una casupola dal cui interno provenivano il lume e calore d’un focolare acceso… senza pensare, il ragazzo entrò e vide un’anziana donna voltata di spalle che se ne stava seduta di fronte al falò scoppiettante. I lunghi capelli canuti erano attorcigliati in una voluminosa crocchia e le spalle curve coperte da uno scialle di ruvida lana.

“Bontà divina, credevo che questo borgo fosse popolato solo da mostri senz’anima… v’imploro comare, tenetemi qua al sicuro per questa notte e all’alba, prima d’andarmene, saprò ricompensarv…”

Quando la vecchia si voltò, le parole gli morirono in gola. Il viso dalla pelle color ebano era solcato da profonde rughe che gli conferivano un aspetto simile alla cartapecora. Sul naso, sul mento e sulle stesse labbra spiccavano gli stessi tatuaggi della mano che aveva scorto pocanzi. Gli occhi, quei dannati occhi, erano completamente opachi ma ugualmente sembravano trafiggerlo con la loro pungente espressione… come se ciò non bastasse, il grembiule era lercio di sangue e tra le sue dita teneva una raccapricciante massa ricoperta della stessa tinta che si accingeva a infilare in una caraffa di vetro.

Dopo avere mollato buona parte dell’ultimo pasto sul pavimento, il ragazzo si gettò di nuovo in strada. Il cuore gli rimbalzava in gola, le gambe gemevano… non gli importava: avrebbe lasciato Nebin quella notte stessa… si sarebbe lasciato alle spalle quel postribolo di biechi demoni una volta per tutte!

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Le luci all’interno della stanza erano soffuse, quasi troppo per un locale adibito a studio. L’uomo con il voluminoso copricapo adornato di denti d’avorio e il volto coperto da una maschera a foggia di teschio di corvo stava assiso su uno scranno di cuoio, intento a scribacchiare appunti in una contorta grafia. Il grande desco era costellato da un’incredibile accozzaglia d’oggetti. C’erano pile di fogli, ceri consumati posti all’interno di scodelle d’osso, alambicchi colmi d’uno scuro liquido simile a melassa, calamai screziati di china secca con mezza dozzina di piume infilate dentro… gran parte del tavolo era tuttavia ingombrata dalla voluminosa figura, lunga almeno sette piedi e coperta da un logoro telo di iuta.

La donna con la crocchia giunse con passo leggero alle spalle dell’uomo: la mano destra smise di scrivere, la sinistra rimase inerte, appesa al collo.

“Moah, nostro ospite ha preso congedo…”

Il capo dell’uomo si piegò di pochi gradi, lasciando intravedere un iride azzurro-cenere dall’orbita della maschera.

“Diamine, a cosa dobbiamo siffatta premura?”

La vecchia proseguì con il solito tono asettico:

“Non sapere Moah… uno dei rinati bussare sua porta per chiedere cosa preferire per colazione di domani… lui subito urlare e fuggire in cantina dove appesi insaccati… arrampicato su scaffale e fatto cadere vaso di sanguinaccio, poi fuggito da finestra… giunto in mia casa mentre prepara fegato di maiale sotto strutto… vista me, vomitato e fuggito ancora…”

L’uomo si concesse qualche attimo per assimilare un così pittoresco resoconto, quindi propose:

“Grazie Samara, ai primi lumi del novello dì seguite le sue tracce per tre miglia al massimo: se la sorte vi sarà propizia nonché lui si mostrerà consenziente, lo riporterete qui.”

La donna attese, poi replicò:

“Lui fuggito verso stagno di troll…”

L’uomo tornò a voltarsi verso i suoi scritti:

“Mi correggo: riporterete qui ciò che troverete… il pregiudizio è una pessima guida.”

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