Anno 2999 dell’Era dei Quattro- Vita e vita

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L’aria del vespro era fredda e tagliente, a Lethan; gli ultimi deboli raggi che il divino Elios concedeva a quelle terre soggiogate erano a malapena sufficienti a illuminare le strette strade che serpeggiavano tra gli edifici rocciosi. La roccia scura delle facciate del Covo, poi, sembrava quasi attirarla a sé, imprigionarla in un carcere d’ombra e non lasciarla scappare. Neanche un misero bagliore illuminava la scura parete posteriore della squadrata costruzione, e adesso che la porta di servizio era aperta verso una stanza a malapena illuminata sembrava davvero la porta d’ingresso per l’ultimo degli inferi della piaga di Orione. Scortato da una coppia di guardie intabarrate in pesanti mantelli neri, il gruppo degli schiavi faceva il suo ritorno all’interno del Covo. Uomini di varie età, abbrutiti dal lavoro pesante nei cantieri imperiali, piegati nel corpo e nello spirito dalle umiliazioni che i soldati di Falcon gli imponevano; la luce nei loro occhi era spenta, come chi si è rassegnato a quella vita. E forse in fondo si consideravano fortunati, a pensare che un giorno la fatica o un armigero troppo zelante li avrebbero uccisi. Al Covo, solo i più forti sopravvivevano; questa era la loro condanna.
Gli schiavi iniziarono ad allinearsi dinnanzi alla porta d’ingresso, mentre il più vecchio dei due soldati li contava. Nessuno alzò lo sguardo verso quello del carceriere, tutti sfilarono all’interno in silenzio. Quando anche l’ultimo fu entrato, la guardia fece rapporto al collega.
– Venti uomini sono tornati dai cantieri, oggi! Giornata fortunata!
Il giovane soldato rimase sorpreso.
– Fin troppo… A me pareva che ne avevamo portati solo diciotto, stamattina…
Il vecchio, dal canto suo, fece tacere l’altro con un gesto della mano.
– Io ne ho contati venti, adesso… mica posso essermi sbagliato!
Rapidamente, i due ricontarono gli uomini a loro disposizione. Alla fine, il giovane esclamò esultante.
– Sono diciotto, vecchio stupido! Ti è partito il cervello?
– Sarà… eppure…- si limitò a commentare l’anziano. Con ordini rapidi, raggruppò nuovamente gli uomini chiudendosi la porta alle spalle e li condusse verso le prigioni, mentre l’altro chiuse la fila. La stanza rimase vuota, illuminata debolmente solo dalla vecchia lampada a olio che dondolava da un rostro di bronzo. Dopo qualche attimo, dalle ombre della stanza una voce soffocata apparve come dal nulla, accompagnata poco dopo da un’altra, più vecchia e decisa.
– Lo sai che questo sortilegio è proprio utile?
– Stai zitto e non ti muovere, altrimenti tornerai visibile…
– Siamo al sicuro, adesso…
Una massa grigia si materializzò nell’aria, prendendo rapidamente forme umane ammantate dalle scarne vesti degli schiavi. Subito un’altra, simile, più bassa e leggermente ricurva, prese forma accanto ad essa.
– Siamo dentro al Covo, mastro Jorge, allora?- bisbigliò Noctulis verso il mentore.
– Ce l’abbiamo fatta, parrebbe- commentò questi, guardandosi intorno con aria circospetta. – Il bello inizia solo adesso…

*    *    *

 Jorge lo sapeva bene. Noctulis non doveva neanche immaginare perché erano lì, o avrebbe mandato tutto all’aria. Lui, il suo maestro, lo stava tradendo di nuovo, nuovamente lo vedeva come qualcosa di oscuro di cui non fidarsi. Per Jorge, il ragazzo era davvero come un figlio, e per questo ne aveva paura. Aveva paura della sua faccia crudele e sanguinaria, malsana, che ogni tanto appariva come un mostro nella notte. Quella “cosa” faceva parte di lui; non era parte del suo carattere, del suo comportamento, ma era proprio una seconda anima, un altro Noctulis dentro il primo. E Jorge Desmortes sarebbe divenuto nuovamente lo Psicarca Bianco, colui che controlla l’anima, per di scoprire quale mistero si celava dentro il cuore del suo discepolo, anche a costo di farsi odiare.

*    *    *

La struttura del Covo era semplice e intuitiva: pochi corridoi, grosse stanze malamente illuminate, così spoglie e vuote da dare le vertigini, scale pericolosamente ripide e insidiose. Strane statue di bronzo, simili a grossi demoni famelici e contorti erano l’unica decorazione del luogo, e sembravano intenti ad osservare sornioni e impassibili quanto accadeva sotto i loro occhi. Noctulis e Jorge camminavano in silenzio, uno vicino all’altro, furtivi e silenziosi come le ombre intorno a loro. Il ragazzo poteva sentire il battito del suo cuore così distintamente che quasi temeva che lo potessero sentire anche gli inquilini del Covo. Jorge, dal canto suo, invece procedeva serio e sicuro per i cunicoli della costruzione, sfruttando ogni angolo per celarsi alla vista e prendendo le vie più sicure e meno trafficate. Era quasi contento che da quando se ne era andato era cambiato tutto molto poco, così che correvano un rischio minimo di essere individuati.
Noctulis pensò di aver camminato qualche miglio, quando si fermarono in mezzo ad un corridoio scuro, proprio di fronte a uno dei deviati simulacri presenti nel luogo. Questo rappresentava un umanoide deforme, il corpo gonfio quasi fino a scoppiare a causa di grosse bolle presenti dappertutto, che al posto degli arti aveva lunghi tentacoli affusolati attorcigliati tra di loro. Il giovane si stupì decisamente della verosimiglianza con cui quella creatura era stata ritratta, e non poté fare a meno di rabbrividire. Jorge cantilenò qualcosa a bassa voce, quando nella roccia piatta si aprì una fessura capace di far passare una sola persona per volta. Senza fiatare l’anziano entrò dentro subito, seguito a ruota dal preoccupato allievo. Prima che potesse fiatare, innanzi ai suoi occhi una debole luce azzurra, spettrale, che non sembrava provenire da alcuna fonte illuminò una stanza vasta almeno trenta piedi per lato, dal soffitto basso e sporco. Il tempo aveva steso il suo velo sulle ampie librerie, ricolme di grossi volumi e fogli sparsi, così delicati da sembrare in procinto di sfaldarsi al solo respirarci addosso. Innanzi alla parete d’ingresso erano presenti alcuni robusti treppiedi metallici, simili a zampe di rettile, che sorreggevano ognuno una grossa palla di vetro opaco, rese bianche dalla polvere accumulata. In un angolo, alcune vecchie catene giacevano spezzate in una raccapricciante macchia scura, come se la roccia avesse assorbito una grossa quantità di sangue, mentre altre pendevano dal soffitto. Quel luogo sapeva di morte, di corruzione, ma anche di antichi ricordi e rimorsi. Jorge non ci pensò troppo; doveva trovare i documenti che gli servivano, i suoi vecchi appunti, gli scritti dei suoi studi. Quella che una volta era la sua arte, lo studio dell’anima come qualcosa di materiale, che già una volta aveva voluto dimenticare per espiare, adesso andava rispolverata e riscoperta per il bene del suo apprendista.
– Non toccare niente,- si affrettò a dire, – qui dentro tutto può essere pericoloso.
Noctulis lo ascoltò distrattamente, incuriosito dalla stranezza del luogo. Avrebbe voluto chiedere al maestro cosa erano venuti a cercare, in realtà, ma la domanda era passata in secondo piano. Quello era il luogo in cui Jorge aveva lavorato, in cui aveva raggiunto la sua famigerata nomea, e comprendeva che qualsiasi dettaglio sarebbe riuscito a cogliere gli avrebbe permesso di capire meglio la figura dell’anziano insegnante. Furono proprio le grosse sfere di vetro ad attirarlo per primo, come se una voce lo chiamasse mestamente e inesorabilmente. Con la manica della tunica da schiavo cercò di rischiarare la superficie del vetro eliminando la polvere, quando all’improvviso vide qualcosa di tremendo, di talmente spaventoso e inquietante che la paura quasi lo gettò al suolo. Un occhio giallo, felino, lo guardava dal varco che aveva creato, incuriosito.
– Allora c’era qualcuno davvero…- sussurrò una voce soffocata, vagamente divertita. – Avanti, non smettere… voglio vedere…
Ipnotizzato e terrorizzato insieme, Noctulis continuò a pulire la sfera, rivelandone il contenuto. L’abitante era qualcosa di vivo, così vivo da sembrare in continua crescita, anche se rimaneva sempre lo stesso. Le sue dimensioni erano quelle di un gatto, con una grossa testa allungata su cui spuntavano tre grossi occhi da gatto, furbi e attenti, e una piccola bocca piena di piccoli denti piatti e bianchi, come quelli di un bambino. Non aveva pelle, ma era una massa di carne guizzante, che si attorcigliava, si contorceva; nuove appendici sorgevano continuamente a sorreggerlo, simili a tentacoli muscolosi, per essere subito inglobate e sostituite da altre aberrazioni. La voce della creatura, per quanto strozzata, era suadente e persuasiva.
– Aaaaaaaah… un Secondogenito… da quanto non ne rivedevo uno…
Noctulis si guardò alle spalle. Sembrava che mastro Jorge non si fosse accorto di niente, impegnato a stipare libri nella borsa. Quella creatura era quanto mai interessante e bizzarra, e soprattutto misteriosa ed enigmatica.
– Secondogenito? Io? Ti starai sbagliando con qualcun altro…
L’abominio rise sommessamente.
– Sempre stupiti di tutto, voi Secondogeniti… Voi che di Isharur conservate il ricordo sopito…
Adesso il ragazzo si era praticamente riversato a coprire la sfera con il corpo, e la studiava avidamente.
– Cosa sei.?… Chi sei?- incalzò, curioso. La creatura ricambiava divertita il suo sguardo bramoso di conoscenza, come se per lei fosse un gioco.
– Io sono un ERRORE, hanno detto… uno sbaglio della creazione, uno SCARTO… eppure anch’io ESISTO, non ti pare?
Il giovane stregone annuì meccanicamente. Aveva sentito parlare di Isharur, il Paradiso Infranto, quello che esisteva prima del sorgere della Piaga di Orione, durante le lezioni di mastro Jorge. Cosa stava cercando di dirgli quella creatura?
– Io sono nato, ma non sono VIVO come te… bizzarro!- continuò l’essere. Il suo tono stava diventando più tagliente, aggressivo, alterato, e si stava arrampicando sul lato della parete della sfera. – Quelli che erano stati con me prelevati dal NULLA, e rinchiusi qui dentro, adesso sono MORTI! Come può MORIRE qualcosa che non ESISTE! DIMMELO!
Noctulis arretrò di mezzo passo, di fronte all’ira crescente della creatura. Era pazza, folle, della follia tipica dei prigionieri… Eppure sospettava che non fosse quella sfera, la prigione di quella creatura, che continuava a sbraitare.
– ESPERIMENTI DELLA CREAZIONE, ALIENI ALLA VITA EPPURE VIVI, E ANCORA OGGI SCHIAVI DI QUALCUNO CHE NON CI LASCIA MORIRE! SIAMO ANIME, E PEZZI DI ANIME, FRAMMENTI DISPERSI E…
– Parli sempre troppo.
Mastro Jorge era arrivato all’improvviso alle spalle di Noctulis, in silenzio. Nei suoi occhi, nella sua voce, ardeva una gelida ira, palpabile, che se fosse esplosa avrebbe trascinato con sé chissà quanta distruzione. Appoggiò una mano sulla sfera, socchiuse gli occhi concentrandosi, e subito la creatura iniziò a dibattersi, a contorcersi urlando, in preda ad una sofferenza indicibile, mentre il corpo senza controllo germogliava e appassiva in continuazione in nuove protuberanza deformi. La voce, adesso, era una cacofonia distorta, il canto malsano di un coro alieno.
– SmeTTilAAAAAAAAh! qUEStO DOlorE E’ inSopPORTabILeEEEEEEEeeeeeEEE!
– Sei ancora allergico alla realtà, vedo- sussurrò irato Jorge. – Il solo contatto ti distruggerebbe…
La mano di Noctulis calò sul suo braccio, allontanandolo dalla sfera. Subito la creatura cessò il suo dolore, e rimase ansimante e contorta sul fondo della sfera, intrecciando i suo tentacoli. Jorge si voltò e vide negli occhi del ragazzo la pietà. La pietà per quella creatura prigioniera, la comprensione per il suo stato di diversa, di estranea, l’ingiustizia del dolore arbitrario che gli stava infliggendo, questo traspariva dagli occhi chiari e dall’espressione seria e supplicante del giovane.
– Adesso andiamocene. Stai pronto per il sortilegio- si limitò a concludere il maestro. Quel ragazzo gli aveva dato l’ennesima lezione, e per l’ennesima volta l’aveva stupito. Come potevano in lui albergare personalità così differenti, come poteva la sua anima non dilaniarsi in quella dicotomia?
Lo doveva scoprire per il suo bene. Appoggiò una mano sulla spalla del giovane, e iniziò a recitare il suo complicato incantesimo che li avrebbe trasportati fuori in un istante, lo stesso incantesimo che usò per la sua fuga tanti anni prima. Quella volta aveva con sé il corpo morto di un angelo che gli aveva indicato la via, adesso un giovane che poteva essere sia un angelo che un demone. Noctulis guardò la creatura ancora dolorante, ma che adesso lo stava guardando. Provava compassione per quell’abominio, ma non era sicuro di quello che vedeva nella creatura. Con un soffio, l’essere lo apostrofò un’ultima volta, carico di un’ironica e maliziosa cattiveria.
– Grazie, ragazzo… sento che un giorno ci rivedremo…
Un lampo di luce, e la stanza scomparve da davanti ai suoi occhi e da sotto i suoi piedi. Erano immersi nella notte innevata, nei colli freddi fuori da Lethan. La città brillava, distante, come un gelido diamante di brina. L’occhio scuro del Covo giaceva al centro, troppo buio per distinguerne altro che la sagoma.
– Anche questa è fatta- borbottò Jorge tra sé e sé. – Andiamo, Noctulis, torniamo a casa prima che prendi freddo…
Noctulis stava tremando, è vero. Eppure non aveva assolutamente freddo, o almeno non nel corpo. Quelle ultime parole gli risuonavano dentro come una velata minaccia, come qualcosa di terribile e inevitabile. Ma cosa aveva da temere, poi? Scosse la testa, sbuffando, e recuperò in borsa le vesti invernali. Tornavano a Sud, adesso, verso il caldo. Si chiese solamente cosa stava portando con sé dopo questo viaggio, se non un carico aggiuntivo di domande. 

 

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Commenti

commenti

5 comments

  1. é passato un Frank, CAVOLI, DOBBIAMO PUBBLICARE, siamo in ritardo!
    Scherzi a parte, vale la pena attendere un pochino di più per i racconti del Frank!!!:)

    Bello bello, ma anche Jorge non scherza come maestro, e nemmeno con i ragazzi, eh? 😉

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