Giustizia

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Gi

Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero Samurai non ha incertezze sulla questione dell’onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

I primi raggi del sole entrarono prepotenti dalle piccole finestre del vagon, e la porta venne aperta, cigolando, da una figura minuta.

– E’ ora!! Sveglia ubriaconi!

Dal buio si sentirono solo mugugni e lo sfregare di tessuti. La serata prima non era stata delle più tranquille, in giro per il piccolo abitacolo della vettura si notavano bottiglie di vario genere, grandi, piccole, alcune con fondacci di vino e alambicchi dall’aspetto ben poco rassicurante, nell’aria ancora un pungente odore di alcool, dato sicuramente dal fiato degli astanti.

Nell’oscurità il piede della ragazza urtò prima qualche boccetta e poi contro qualcuno che non fece altro che lamentarsi; decise quindi di lasciarelo ancora a dormire, chiunque fosse.

– Vabeh, tornerò fra un pò… – pronunciò le parole con un certo tono di stizza mentre usciva dal vagon, sbattendo violentemente la porta in legno massiccio. Non era certo nelle condizioni pessime degli uomini ma anche lei ci aveva dato abbastanza dentro con i festeggiamenti: il tiepido sole primaverile la costrinse ad infilarsi gli occhialini scuri ed abbassare la vista. Sullo spiazzo il marasma più totale faceva da padrone: cibo, altre bottiglie e il falò oramai spento adornavano il posto rendendolo un sudiciume incredibile. Si poggiò una mano sulla fronte pensando a quanto avrebbe dovuto lavorare in quella mattinata, quando, osservandosi attorno, notò che all’ombra di un grande faggio stava Kasumi, con braccia e gambe incrociate e poggiata sulle cosce la katana del Maestro. Una leggera folata di vento le sfiorò il viso, i capelli legati stretti neanche tremarono, così come tutto il corpo della samurai. Sembrava esser addormentata, quando un piccolo ramoscello pestato dalla giovane magistra le fece schiudere gli occhi, sempre adorni dalle profonde occhiaia. Izzie si chiese se fosse una sua impressione o se effettivamente l’alcool avesse avuto effetto pure su quell’impassibile donna, visto il colore violaceo ben più marcato rispetto al giorno precedente.

– Ben svegliata, Izzie, passato un buon riposo? – chiese alzandosi lentamente rimanendo comunque all’ombra dell’albero.

– Diciamo di si…- rispose la ragazza sorridendo. – tu invece? Non dirmi che sei rimasta a vigilare tutto questo tempo!

– Ho avuto modo di riposare e meditare su alcune cose.- Una leggera risata affiorò sulle labbra della guerriera quando notò in quali condizioni avevano lasciato il posto, poggiò le armi e si tirò su le maniche bianche della veste.

– I lavori sporchi sempre alle donne, eh?

– Si, ma vedrai che questa situazione durerà per molto poco…- obiettò Izzie stronfiando, portando i corti capelli castani dietro ad un orecchio. Kasumi si sentì in un certo senso sollevata, anche se continuava a percepire tristezza mista a colpevolezza, notando come il tempo era riuscito a cambiare l’amica non solo esteticamente ma soprattutto mentalmente. Ed in tutto ciò lei era stata assente. Per lei, Gabriel, Samuel e tutti gli altri presenti al nido i fatti si erano susseguiti troppo velocemente per capire l’effettiva gravità della situazione. Aveva salvato le Terre d’Oriente, ma a quale prezzo? Erano giorni che si chiedeva se fosse stato quello il posto giusto in cui essere, il momento giusto… o se forse li avrebbe aiutati di più scegliendo diversamente. Sette anni, lunghi solo un giorno. Improvvisamente, le mancò sua madre. Demetra, la vecchia Hatchin, ma più di altri Melisenda e Haku. Non riusciva a perdonarsi di averli lasciati al loro destino, di non aver adempiuto appieno la propria missione. Lei, che aveva fatto una promessa. Non poteva deludere il suo Maestro.

Nuovamente, la maniglia intarsiata girò, sbloccò il meccanismo della porta che venne di seguito spalancata: dietro di essa, come appena uscito dal peggior maelstrom, Gabriel, che a testa bassa si massaggiava le tempie, seguito a ruota dal fratello, da Zadnja e per ultimo Shillark, fresco più di una rosa nonostante la quantità di bevande alcoliche ingerita. Scesi i tre scalini si sedettero attorno al falò spento e si misero a fumare, noncuranti delle due ragazze indaffarate che li fulminarono con lo sguardo. Continuarono a parlare della grande serata, delle varie scommesse e di leggende viventi fino a quando la samurai si avvicinò e prese letteralmente per il bavero il malcapitato angelo nero, che si dimenò senza successo, scagliandolo in mezzo ai rimasugli che dovevano ancora togliere.

– Shillark, dice il saggio: non tutte le donne sposate sono mogli. Io non sono neanche sposata, quindi, alfiere, datti da fare.

Il ragazzo tentò di controbattere, ma la rossa lo zittì in un secondo congedandosi dagli astanti per lavarsi il viso.

Si allontanò di pochi passi per trovare, nascosto in mezzo al bosco, un piccolo laghetto, e rimase a specchiarsi per un tempo che sembrò infinito. Si sciolse i capelli nel vano tentativo di allentare il cerchio alla testa formatosi, e si distese sull’erba annusandone il profumo. Nella mente, pensieri e frasi si susseguivano caotici, nonostante fosse stata tutta la notte a ponderare la decisione. Qualunque risposta avesse ricevuto avrebbe capito le motivazioni, negative o positive che fossero, e avrebbe continuato il cammino. Loro erano sì la sua famiglia, i suoi amici più stretti, ma c’erano comunque altri che necessitavano del suo aiuto e due persone speciali a cui non voleva rinunciare.

– Ragazzi… – uscì dal bosco timidamente, quasi come non volesse disturbare la quiete che si era creata. Il gruppetto seduto davanti al vagon si ammutolì, solo sbuffetti di fumo ogni tanto si levavano in cielo.

– Qualunque cosa rispondiate dovete sapere che nonostante screzi, nonostante il mio modo di pensare sia totalmente opposto al vostro, nonostante non condivida appieno ciò che avete fatto in passato accogliermi con voi nel vostro piccolo cerchio è stato un grande onore per me. Siamo compagni di ventura, in questi ultimi anni abbiamo visto cose inenarrabili, compiuto gesta eroiche ma il nostro cammino non è ancora completato, e se anche le nostre strade si separeranno, sappiate che in qualunque parte del mondo mi trovi verrò sempre in vostro aiuto.

Si sedette, chinando un poco il capo con riverenza.

– Adesso sono io, umile, di fronte a voi, che chiedo aiuto: vorreste accompagnarmi nel viaggio verso i colli di giada?

Passarono secondi di silenzio, sguardi si incrociarono e senza neanche un bisbiglio o un dubbio, poi una voce chiara e cristallina tuonò rompendo il silenzio.

– Quando si parte?- chiese Shillark sorridendo beffardo.

 —

Il soffitto della biblioteca sovrastava in altezza di gran lunga quella della donna, che riverente entrò silenziosa accostando l’enorme portone dietro di se. La flebile luce della lanterna illuminava ben poco di quel santuario immerso nelle più oscure tenebre. Ovunque pile di libri spuntavano come fuse col terreno, con appunti e segnalibri infilati tra le pagine ingiallite di vecchi manoscritti, sugli scaffali di legno antico ne giacevano altri polverosi ma in perfetto ordine alfabetico, tanto da essere in netto contrasto con il caos che invece permaneva sul pavimento. L’angosciante sensazione di avere occhi puntati addosso si faceva a volte più presente, ma era palese e chiaro che in quella biblioteca ci fossero solo scartoffie e forse qualche innocente aracnide. La samurai si fece strada tra le pile cercando di non pestare nessuno di quei, apparentemente, sacrosanti scritti, scorgendo in lontananza un’altra piccola luce calda che tremolava leggermente. Girò l’angolo, in trepidazione, per trovare un uomo accovacciato su di un piccolo sgabello in legno intento a sfogliare e trascrivere varie pagine che aveva appoggiate sulle gambe; su di un libro buttato malamente giaceva un cappello di lana piumato, stracolmo di pergamene, piume e un inconfondibile diario. La donna si avvicinò cauta e picchiettò sulla spalla dell’amico, che trasalì.

– Kasumi! Non farlo mai più, mi hai fatto prendere un accidente!

Rimase un pò indertetta, poi sorridendo girò intorno a Jep per potersi sedere di fronte a lui, per terra.

– Non avrai paura in un tale posto Jep? Il bardo più impavido delle terre d’oriente, colui che ha sfidato addirittura i sette folletti oscuri!

L’uomo abbassò gli occhi sul libro che stava studiando e accennando un sorrisetto sarcastico ribattè all’amica:

– E’ solo perchè ho sempre avuto qualcuno intorno che mi ricordava perennemente dove avessi lasciato lama e scudo… Speravo che almeno qui al Santuario della Memoria di non averne bisogno!

Kasumi si guardò un pò attorno, cercando di scorgere qualcosa oltre al buio pesto della biblioteca, ma si rivelò un tentativo piuttosto inutile. Osservò quali ricerche stesse facendo il bardo quella volta, ma oltre a qualche libro sulla cabala alemarita tutto il resto le sembrò piuttosto sconosciuto.

– Ancora dietro a queste ricerche, vedo- disse la ragazza scostandosi qualche ciuffo di capelli caduto di fronte agli occhi.

– Sarà veloce come l’ultima o ti tratterrai qui più di tre mesi?

– No dai, ancora qualche settimana e ho finito…- rispose Jep senza alzare lo sguardo dal manoscritto. Kasumi rimase per un pò in silenzio a guardarlo scribacchiare, da quando l’aveva conosciuto la sua più grande abilità risiedeva sulla velocità di immagazzinare informazioni, era stato di grande aiuto per tutti all’interno della contea e un grande amico per lei, l’unico sempre presente a sorreggerla quando i più oscuri pensieri prendevano il sopravvento. A pensarci, era la cosa che più si avvicinava all’essere un fratello.

 

 

– Jep…- la donna si schiarì leggermente la voce prima di continuare. Lasciare qualcuno era sempre difficile, lasciare Jep lo sarebbe stato ancora di più.

– Sono venuta fin qui per salutarti, sto per partire. Sarà un viaggio lungo, il mio, e non so quando ci rivedremo.

La piuma intrisa di inchiostrò si fermò a mezz’aria, venne riposta nel calamaio e il bardo trasse un profondo respiro.

– Questo vuol dire che… ci rivedremo, vero? Sai che sto studiando per divenire… beh, tu sai cosa, no? Ognuno si scrive il proprio destino, non lasciare che altri lo facciano per te…

Kasumi sorrise, senza rispondere. Si alzò in piedi e gli strinse la mano, fortemente, per poi abbracciarlo. Gli occhi le si inumidirono.

 

 

 

Il vento gelido spazzava la neve candida dai secchi ciliegi, il lastricato era interamente ricoperto dalla coltre accecante. Il silenzio, tombale, regnava incontrastato sul piccolo altopiano ove si ergeva il santuario; si udivano cinguettii dei pettirossi quasi impercettibili mentre l’uomo avanzava diritto senza voltarsi. Oltre la fila di alberi, giardinetti ben curati con fontanelle ghiacciate si stagliavano netti come la lama affilata di una spada sullo sfondo montagnoso, lasciando al paesaggio una vista mozzafiato. Al centro del cortile, come una reliquia, un enorme albero secolare poggiava le sue radici in una piccola aiuola, anch’essa immacolata. I rami ormai ingobbiti sotto il peso della neve scendevano come lacrime fin quasi toccar il terreno, e l’uomo si sentì impotente di fronte alla bellezza della natura. Come appena risvegliatosi da un sogno scrollò la testa superando l’arbusto. Alla fine del lungo viale si ergeva, ricavato dalla roccia, il tempio, austero, imponente, sembrava egli stesso a crear la tempesta invernale: il portone d’ebano pareva tutto fuorchè un invito ad entrare. Il santuario, adornato da lugubri statue di Oni e grandi maniglioni dorati, aveva pochi intarsi sul legno in una lingua rimasta ancora incomprensibile all’astante. Anche gli uccellini avevano cessato il loro canto, come al cospetto di un grande demone, e facendo appello a tutta la sua forza il guerriero spinse l’anta; subito l’aria tiepida mista ad incenso entrò nelle narici, il buio all’interno pian piano si affievolì mentre cigolando il portone si richiuse. Le fiamme dei numerosi ceri traballarono fino a quasi spengersi, erano l’unica fonte di luce dell’immensa sala, di cui non si riusciva a vederne il soffitto. Grandi colonne in legno addobbate da antiche pergamene scaramantiche formavano la navata centrale che conduceva fino ad un piano rialzato in marmo. I passi rimbombavano sordi nello stanzone, ad ognuno di essi l’armatura tintinnava e i vari simboli appesi alla cinta sbattevano tra loro. Il grande spadone, ormai stegliato e con poco filo, poggiava pesante sulla spalla del suo proprietario, come se lo scorrere degli anni fosse fluito anche in esso, e mentre avanzava l’uomo ebbe l’impressione di scorgere nelle ombre orribili mostri provenienti da un lontano passato. Più si avvicinava all’altare e più le candele aumentavano, insieme all’odore dell’incenso che si fece più pungente e particolare, ricordandogli il tabacco aromatizzato delle sue terre.

Piccole tende separavano il resto dell’edificio dall’androne, le scostò con una mano delicatamente.

Seduta, a gambe incrociate con le spalle rivolte all’entrata, stava una figura umana, immobile come una statua circondata da mille ceri e solo un tappeto a dividerla dal freddo pavimento in pietra. Sul muro dietro di essa due katane appese, un terzo alloggio vuoto, e mille carte e pergamene talmente fitte da sembrar a prima vista un solo strato. Indossava un’armatura lamellare totalmente nera, lucida, ogni placca finemente lavorata e legata da fili dorati, guanti d’arme in pelle ricoprivano le mani. Si scorgeva il collo del vestito da sotto la corazza, bianco come la candida neve. Sulla testa l’elmo, agghiacciante, ricopriva il viso interamente, sostituendolo con quello di un’orrenda creatura cornuta che urlava come in preda alle sofferenze più atroci.

– Custode…- esordì l’uomo incappucciato. L’unica parte scoperta mostrava, oltre che un grande tatuaggio, svariate cicatrici e rughe dovute al passare degli anni. La figura corazzata lentamente portò le mani al kabuto e lo sfilò, rivelando folti capelli che ricaddero sugli spallacci, voltandosi verso l’ospite.

– Alfiere…- la voce, un sussurro, la ricordava esattamente a quel modo. I tratti del viso, però, erano decisamente cambiati. Sulla bianca pelle spiccavano marchi simbolici dell’ordine, che adornavano gran parte della fronte fino sugli zigomi; una cicatrice, segno di una lontana battaglia, tagliava di netto l’occhio destro lasciandone la pupilla vitrea. Altre, più piccole, solcavano lo spigoloso volto della samurai, mentre le violacee occhiaia erano solo peggiorate nel passare degli anni. Togliendosi il cappuccio che lo riparava dal freddo Shillark si sedette di fianco a Kasumi, poggiando al di fuori del perimetro la sua grezza lama. Trasse un profondo respiro e cominciò per primo a parlare visto che la donna non sembrava averne l’intenzione.

– Dunque… Insomma… Come va la vita da queste parti? Non ti manca neanche un pò il campo di battaglia? A me continuano a far girare a destra e a manca nonostante tutta la mia esperienza… Dopo un pò diventa frustrante…

– Anche questo è un campo di battaglia, il mio. Tu sai meglio di chiunque altro cosa e chi ho dovuto sacrificare pur di sostener l’equilibrio.- rispose la samurai abbassando lo sguardo, evidentemente provata. Era passata più di una decade da quando si era separata dalla carovana, nonostante amici e conoscenti avessero tentato di dissuaderla. Tutti tranne Shillark, che era tornato lì per lei. Aveva capito fin da subito che la via che Kasumi aveva scelto non era semplice, sarebbe andata incontro a morte certa in pochi anni, ma sapeva benissimo che anche la vita di un angelo nero sarebbe stata breve, intensissima, e non poteva che condividere appieno.

La donna teneva stretta tra i palmi la katana portatole ormai anni addietro all’isola, come un trofeo, e l’alfiere capì in quell’istante che non se ne era mai separata.

– Vedo che ci tieni ancora a quella…- indicò la lama lucidata accuratamente.

– E’ l’ultimo ricordo che ho di lui…- disse sommessamente l’allieva divenuta ora maestra. Una lacrima scese sulla guancia rigandola, per poi cadere sugli hakama neri come la pece.

– Dicono ci sia a far da guardiano ai ducati un certo Kaze Matsuyama, lo conosci per caso?

– No, ne ho solo sentito il nome, risuona in queste mura assieme all’eco delle anime di tutti gli altri Dragoni.

– Sicuramente saprà cavarsela.- finalmente un sorriso illuminò il volto della donna, che tornò cupo subito dopo. La mano, che poco prima lisciava la lama, si poggiò su quella di lui, e solo con lo sguardo il guerriero capì quanto dovessere essere stata sola negli ultimi anni.

– Se sei qui dev’essere successo qualcosa di particolare…- continuò Kasumi con voce dubbiosa.

– Volevo salutarti come facevamo ai tempi d’oro…- si avvicinò e le baciò lievemente una guancia. Lei si alzò, iniziando a slacciare l’armatura, e gli fece cenno di seguirla. Attraversarono una viuzza pavimentata in legno pulita poco prima dalla neve, alla fine di essa una stanzetta scarna, un tufon a terra e altre candele ad illuminarla. La schiena nuda della donna era ricoperta da un enorme tatuaggio, sulle mani e braccia altre cicatrici, alcune addirittura recenti. Lo stesso valeva per l’uomo, temprato da mille battaglie, con simboli di Urama onnipresenti sul corpo. La bufera si attenuò fino a lasciare un flebile vento gelido che sussurrò labile alle porte della camera.

 

 

Aprì la piccola sacca alla cintura e ne estrasse la pipa. Guardò la donna chiedendo permesso ed ella, leggermente contrariata, fece cenno di continuare. Il profumo delle candele si mischiò all’aroma del tabacco, ed un denso fumo grigio si alzò disperdendosi nell’aere. Passarono infiniti minuti di silenzio frapposti a rimembranze dei vecchi tempi, fino a che l’ultima foglia non finì di bruciare.

 

– … Non ricordi l’indomabile, anche? Una delle poche volte che sei tornato sorridendo come un bambino.

– Il domabile vorrai dire!- scoppiarono tutti e due in una sonora risata, il tempo passato lontani ormai sembrava solo un ricordo.

– Devo andare…- disse Shillark sussurrando. Lei lo guardò intensamente mentre si alzò per sgranchirsi le gambe. Lui la seguì subito dopo. Il kimono che indossava era ricamato finemente, i lunghi capelli scarlatti ricadevano sulle spalle ondulando ad ogni passo del custode, falcate sicure l’avvicinavano sempre più al portone. Un filo di luce entrò prepotente dal varco creatasi all’entrata, costringendo i due a strizzare gli occhi prima di riacquisire la vista. Piccoli fiocchi di neve si fecero spazio sul pavimento, altri si poggiarono sul viso della donna. Kasumi osservò, silente, il paesaggio esterno.

– Almeno hai una bella vista…- sogghignò l’uomo preparando il cappuccio.

– E’ un addio dunque questo?- chiese lei titubante. A stento cercò di non piangere e mantener il rigore tipico del suo carattere, ma la voce uscì spezzata dal groppo in gola. Shillark le tolse i fiocchi dal viso e le prese tra le dita il mento.

– No, è un arrivederci… Nelle battaglie, nelle guerre, nel sangue, mi troverai lì in prima linea.

 

Pianse. Poi un bacio, interminabile, passionale, in se tutto ciò che avevano passato, tutto quello che avrebbero voluto e tutto quello che non ci sarebbe mai stato. L’ultimo, prima che il ciliegio e il dente di leone non si fossero separati per sempre.

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