L’ora del tè di Ranjan

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Se un osservatore esterno giungesse al campo dello Spiantato e si mettesse ad esaminarlo con attenzione per un’intera giornata, dalla mattina presto a notte inoltrata, potrebbe cogliere le mille piccole peculiarità dei suoi membri, catalogarle e inserirle in un quadro coerente ed esplicativo della vita della rinomata Masnada. Tale osservatore, però, si troverebbe in difficoltà nel cercare di spiegare la sottile e spesso inosservata ossessione che accomuna molti individui dello Spiantato: la ligia osservanza all’ora del tè. La prima cosa che salterebbe all’occhio sarebbe che non si tratta di un’ora precisa e codificata, né di una serie di regole preimpostate, ma che varia da persona a persona per momento della giornata e modalità. Nondimeno, l’ora del tè del singolo membro mantiene costante le proprie caratteristiche fino a risultare un evento imprescindibile all’interno della vita quotidiana.

La prima a partire all’alba è sempre Sigrun. La fedele thersiana sistema un bricco di vecchia latta ammaccata a bollire sulle braci morenti dei falò notturni, quindi si prodiga nelle preghiere del mattino; al termine di esse mette le foglie di tè nell’acqua ormai calda, lasciandole in infusione il tempo necessario per indossare l’armatura. Di solito consuma la bevanda seduta, pensierosa, alternando brevi sorsi a lunghe pause. L’odore che si sente intorno è amaro, acuto, con un vago sentore di achillea e artemisia.

Quando l’ora di colazione giunge per l’intero campo, Lucius si presenta con un pentolone di tè caldo. Lo sistema al centro di un robusto tavolaccio di quercia, e intorno vi dispone le sue creazioni appena uscite dal forno: cornetti, bigné, fette di torta o di crostata, trecce, girelle, cannoli e biscotti per tutti i gusti. Il pasticcere si mette a lato del tavolo, si premura di avere abbastanza monete per fare i resti, quindi immerge la tazza direttamente nel pentolone per gustarsi per primo la tisana. Lucius non crede nella contrapposizione dei sapori: le sue paste sono dolci e il suo tè è dolcissimo, con un profumo avvolgente di lavanda e tiglio, reso ancora più forte dal vasetto di miele che vi viene versato dentro e da misteriosi funghi che solo lui conosce. Nel suo, poi, Lucius ci rimette pure due zollette di zucchero.

Il tè di John è un mistero. Da quando gli è stato detto di smettere di iniziare a ubriacarsi da metà mattinata, il giovane pirata ha iniziato a girare con una teiera presa chissà dove, in fine porcellana con decorazioni floreali e con tanto di tazza e piattino in corredo. Ogni tanto John se ne versa una generosa tazza che butta già tutta di un colpo. Il punto è che nessuno ha mai visto John riscaldare l’acqua o mettere alcunché in infusione. Chi ha visto l’interno della tazza dice che il tè sia ambrato, con una densa schiuma bianca, all’apparenza fresco e con un forte odore di malto e luppolo.

Dopo l’ora del pranzo è la volta dell’infuso di Antares. La speziale provvede personalmente alla raccolta delle erbe necessarie, riportando dai suoi giri esplorativi ricchi fastelli di foglie, fiori e piante di ogni tipo, foggia e colore; il tutto viene fatto bollire in una beuta di rame sotto lo sguardo attento della preparatrice, che provvede poi a versarlo con attenzione meticolosa prima in una piccola brocca di terracotta, poi da lì in un bicchiere di vetro intarsiato. Nessuno conosce la ricetta precisa del tè di Antares: il profumo cambia ogni volta a seconda della zona di raccolta e della stagione, ma l’unica cosa su cui tutti sono d’accordo è che non chiedere di assaggiarlo potrebbe essere una scelta saggia.

A metà pomeriggio Filomena osserva un rigido rituale di preparazione: mette a bollire l’acqua in una alta brocca di metallo osservando attentamente che il tempo di ebollizione sia preciso al secondo, quindi recupera da una scarsella una piccola sacchetta, perlopiù di seta molto sottile o di lino. Il contenuto della sacchetta, foglie secche finemente conciate dal sentore di malva e tè nero, viene versato nella brocca e lasciato infondere per non più di quattro minuti, quindi il liquido viene fatto passare attraverso un filtro fino a una elegante tazza di raffinatissima ceramica. A quel punto Filomena trae un unico sorso con cui svuota metà tazza, commenta “Schifosa acqua sporca” tra sé e sé, quindi rovescia l’infuso rimanente a terra e se ne va.

A tarda serata, quando il campo dello Spiantato è perlopiù avvolto nel silenzio, anche Balthazar e Cyra si concedono un attimo di riposo. La Cadetta, canticchiando tra sé e sé, appronta un infuso dal delicato odore speziato, con note di camomilla e melissa, mentre Balthazar termina di sistemare i dispacci della sera; quando è tutto pronto è l’Alfiere che provvede a tirare fuori dalla madia un vecchio servizio di porcellana con motivi di draghi e gigli e a versare due robuste tazze. I due poi consumano il loro tè in religioso silenzio, a volte spezzato solo da Cyra che accorda il suo strumento, ma non una parola vola a spezzare la quiete della tenda, finalmente tranquilla dopo un’ordinaria giornata di Masnada.

*             *             *

Era poco prima del tramonto, e Tahira era appena tornata dal controllo con i cerusici dello Spiantato. Le ferite inflittele dagli imperiali di Farooq quando Ranjan l’aveva liberata facevano fatica a guarire e quindi aveva bisogno di visite regolari e medicazioni giornaliere. L’unica cosa che desiderava in quel momento era buttarsi sul suo pagliericcio e chiudere gli occhi fino al giorno successivo; un profumo dolce e familiare, però, la investì subito prima di entrare nella tenda.

Scostò il telo di ingresso cautamente incuriosita; all’interno, uno scorcio totalmente fuori luogo, una stanza allestita con quello che più si avvicinava al miglior lusso athariano. Cuscini di seta buttati in ogni angolo, fini drappi semitrasparenti che creavano bizzarri giochi di luce, un basso tavolino in legno chiaro intarsiato: su di esso, un servito completo in fine argento cesellato, comprensivo di tazzine e piattini. Ranjan, con addosso una lunga tunica in lino bianco, se ne stava a gambe incrociate, intento a versare acqua bollente da una teiera dal lungo collo con la dovizia di un alchimista. Dalla tazza si sprigionava un sentore di menta pungente e avvolgente, vagamente malinconico.

– Un attimo e siamo pronti – sorrise Ranjan. Stava canticchiando un vecchio motivetto delle genti del Deserto Grigio a bassa voce mentre terminava la sua opera. Quando la tazza fu colma, l’uomo vi posò dentro con delicatezza un rametto di menta fresca e una zolletta di zucchero prima di porgerla a Tahira, che nel frattempo si era seduta al lato opposto del tavolo.

– Dove hai trovato tutta questa roba? – chiese lei stringendo la tazzina fra le mani, faticando ancora a riprendersi dallo stupore.

– Qua e là – rimase sul vago Ranjan mentre preparava un altro po’ di tè per sé.  – Ho scambiato un po’ di vecchie chincaglierie che portavo con me da quando sono partito, ho fatto qualche favore alla gente giusta, e alla fine anche nella Scacchiera si trova. Certo, non aspettarti la qasbah di Kush, eh…

– Non sapevo neanche tu sapessi preparare il tè all’athariana – ridacchiò Tahira.

– Mio padre lo preparava benissimo – l’uomo si portò la tazza alle labbra per un’istante. – Io mi limitavo a bere e a guardarlo. Credo sia la prima volta che mi ci cimento.

Lo sguardo di Ranjan indugiava sul fondo della tazza. La donna se ne accorse, ma rimase in silenzio. Il tè era fatto alla perfezione, non c’era niente da dire. Erano almeno passati almeno tre anni da quando avevano bevuto qualcosa insieme presso l’oasi dove stanziava la tribù di Ranjan. Quietamente seduti, i due bevvero la calda bevanda senza dire niente, poi l’uomo iniziò a preparare altre due tazze non prima di aver tirato fuori due piattini di noci e datteri.

– Presto starò meglio, Ranjan – ruppe il silenzio Tahira. – Non dovrai più lasciarmi indietro al campo… e potremmo pensare di andarcene dalla Scacchiera.

Sul volto del giovane aleggiava un sorriso debole, pensieroso, assorto, come la più eloquente delle risposte.

– So che non puoi andartene, ma vorresti andartene se potessi? – insistette lei.

Nessuna risposta.

– Andartene con me?

Con la stessa espressione pensosa Ranjan si alzò in piedi e recuperò un sacco di iuta appoggiato tra due cuscini. Dal suo interno estrasse uno scialle ricamato con arabeschi argentati, con piccoli campanelli cuciti sui bordi. Con gesti compassati lo posò sulle spalle di Tahira, per poi cingerla in un delicato abbraccio dalle spalle.

Lei chiuse gli occhi, mentre un sorriso triste le si dipingeva in volto.

– So che non ti fidi ancora di me, dopo tutto quello che è successo – gli sussurrò dolcemente in un orecchio. – Hai paura che io possa essere ancora dalla parte degli imperiali, che il salvataggio sia tutta una trappola e che io tradirò la tua fiducia.

L’uomo non rispose.

– Niente che io possa dirti ti aiuterà a decidere se credere in me o meno – continuò Tahira con voce insospettabilmente ferma e carezzevole allo stesso tempo. – Non te ne faccio una colpa, davvero.  Eppure… grazie per essere qui con me adesso.

– Non vorrei mai vederti soffrire, mia ayartha – le rispose lui con altrettanta gentilezza.

Rimasero abbracciati a quel modo per chissà quanto tempo, senza dire niente. Il sole scese abbondantemente oltre l’orizzonte e al campo dello Spiantato vennero accesi i bivacchi per la notte. Dentro la tenda non si vedeva a un palmo dal naso.

– Ti accompagno a letto – fece Ranjan con fare cavalleresco, aiutandola ad alzarsi.

– Non sono messa così male – sbuffò lei, – e comunque sono una soldatessa, ti ricordo. Non trattarmi come fossi di porcellana.

– Mi scusi, signorina ‘Mi-hanno-aperto-la-gola-due-mesi-fa’ – la canzonò l’uomo. Poi ci pensò su. – Troppo presto per scherzarci?

Lei rise di gusto.

– Questo posto ti ha cambiato, Ranjan – sentenziò finendo di sghignazzare. – Una volta saresti andato dritto con la tua battuta senza preoccuparti delle conseguenze. Tutta questa gente sta riuscendo a renderti una persona con un po’ di senno in corpo?

– Che un qualsiasi membro dello Spiantato possa insegnarmi come mettere senno la vedo molto, ma molto improbabile… – commentò lui, mettendosi a sedere sul bordo del letto. – Però ho incontrato molta brava gente qui, lo devo ammettere.

– È per questo che sei titubante ad andartene? – chiese Tahira sdraiandosi sotto le coperte. – Anche tu hai trovato qui una famiglia, come dicono molti?

Ranjan ci pensò su, dondolando sul bordo della branda.

– Lo Spiantato non è una famiglia, o almeno non la mia famiglia. Quella è nel deserto che mi aspetta. – Ranjan ci ragionò su. – Lo Spiantato è più tipo… un cammello.

– Credo che questa metafora abbia bisogno di spiegazioni – cantilenò Tahira, confusa. Ranjan spiegò dopo un attimo di esitazione.

– Il cammello è la bestia più affidabile che esista. Non ti lascerà mai solo, non si stancherà mai, non ti mollerà mai a piedi. Quando ne avrai bisogno sarà sempre lì per te. Il cammello non ti giudica e starà con te fino al giorno in cui morirai.

– Sento che c’è un però… – intervenne la donna.

– Due, per essere precisi. Per prima cosa, tu non conduci il cammello. Puoi consigliargli la direzione, puoi avere l’illusione di tenerlo per le briglie, ma in fondo alla giornata se il cammello non vuole andare in una direzione non ci va e punto. Se riesci ad arrivare alla tua destinazione è perché la bestia ha deciso che voleva andare in quella direzione, non perché tu ce l’hai mandata. Quindi, in ultima decisione, è sempre il cammello a decidere. Tu puoi solo accompagnarlo e sperare di fare la stessa strada.

– E l’altro però?

Ranjan si alzò dal letto, posando un bacio sulla fronte di Tahira.

– Non puoi passare tutta la vita a dorso di cammello. Prima o poi dovrai scendere e camminare per conto tuo, con i tuoi piedi.

L’uomo fece qualche passo nella penombra della tenda, fino al tavolino basso. Soppesò la teiera, e quindi ne svuotò il contenuto nella sua tazza, mescolando per bene l’acqua ormai fredda con i residui di menta e zucchero. Con gesto compassato, bevve quell’ultimo dolce sorso e poi si ritirò a dormire.

*             *             *

Se un osservatore esterno giungesse al campo dello Spiantato potrebbe notare come non sia possibile trovare schemi e ripetizioni nei vari rituali perpetrati dai suoi partecipanti. Allo stesso modo, però, potrebbe trovarvi un significato comune. Preparare un tè è prendersi cura di qualcosa. Di qualcuno a cui si tiene, delle proprie abitudini, della propria salute fisica e mentale. Oppure, molto semplicemente, significa prendersi cura di sé stessi.

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