Sugli spalti dell’Ovestvallo – Parte I

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Militava presso l’Ovestvallo ormai da qualche luna, quando la vide per la prima volta.

Lei era appena arrivata, insieme a un drappello di reduci malridotti. Non solo nel fisico. Cristilde aveva imparato a riconoscere i mali che affliggevano la mente al pari di quelli che piagavano il corpo, con la differenza che i primi non aveva studiato come guarirli, sempre che fosse possibile. Le ossa rotte potevano essere aggiustate. I tessuti lacerati potevano esser ricuciti. Ma quando si era rotto qualcosa dentro, invece, non esisteva alcun rimedio. Lei lo sapeva bene.

La donna era alta, i suoi capelli biondi come il grano maturo spiccavano tra gli elmi impolverati dei suoi compagni. Le vesti lacere e macchiate di sangue secco parlavano di un viaggio lungo e irto di combattimenti. Un enorme mazzafrusto le pendeva dalla cintura, mentre in mano sorreggeva un lungo spadone. Intorno alla vita portava raffazzonato, a mo’ di gonnellino come i kilt dei Gardaniti, quello che pareva un lembo di uno stendardo di Falcon.

Le labbra di Cristilde si incurvarono in un sorriso. Quella donna sa farsi notare, non c’è che dire.

La osservò raggiungere il centro del cortile interno insieme alla schiera. Lì si fermò, guardandosi intorno, valutando con la fronte aggrottata il luogo in cui era giunta, quindi apostrofò il primo soldato della guarnigione che le passò vicino: – Ehi, dov’è che tenete l’alcool qui? E quando si va a combattere?

Cristilde scrollò la testa e si allontanò sugli spalti, perdendo interesse per i nuovi arrivati. Un’altra accozzaglia di pazzi scatenati e ubriaconi a cui avrebbe dovuto sanare le ferite e, compito ben più difficile, il fegato. Ce n’erano già abbastanza sull’Ovestvallo per quello che la riguardava. La donna non faceva eccezione.

La rivide quella sera stessa nel refettorio. Non aveva neppure perso tempo a togliersi l’armatura di dosso e sembrava che fosse seduta a quel tavolo da parecchio, a giudicare dalla schiera di boccali vuoti e rovesciati davanti a lei. Cristilde non era una grande bevitrice, anzi, quando poteva evitava ogni genere di alcool, ne aveva i suoi motivi… ma era abbastanza sicura che lei sarebbe stata in coma etilico da un pezzo, se avesse ingurgitato una dose simile di birra.

La donna invece se ne stava stravaccata sulla panca a gambe aperte, una smorfia dipinta sulla faccia dalla mascella lievemente pronunciata, e sollevava di tanto in tanto il corno nero che usava come boccale per chiedere ancora da bere. Solo gli occhi lucidi e iniettati di sangue tradivano quanto fosse ubriaca.

– Hai visto chi abbiamo tra noi?

Cristilde distolse lo sguardo dalla donna, quasi infastidita di essere stata colta a fissarla troppo a lungo. Alfred Montgomery, uno dei giovani partigiani del gruppo a cui si era unita per raggiungere l’Ovestvallo, sedette sulla panca davanti a lei.

– Ottavia la mozza-teste! – proseguì, abbassando la voce e sporgendosi sopra il tavolo per farsi sentire meglio nella chiassosa allegria del refettorio. Accennò con il mento alla donna in disparte. – È proprio lei, per gli Astri!

Cristilde inarcò il sopracciglio. – Dovrei conoscerla?

– Sì, ma dai! Quella di cui parlavano i ragazzi dell’ultimo gruppo ribelle giunto due settimana fa al Vallo dalle Piane. Dicono che combatta come Alhazhar in persona e che con il suo mazzafrusto abbia tranciato le teste di centinaia di Imperiali!

– Una tipa pericolosa…

– Un’eroina, se le storie su di lei sono vere.

– Allora perché non vai a bere insieme a lei? – non potè fare a meno di domandare Cristilde.

Alfred ridacchiò. – Per rischiare che mozzi la testa anche a me, se le girano le palle? No, grazie, non sono mica matto! Piuttosto… non è che dopo posso venire nella tua stanza? – domandò speranzoso.

Lei scosse la testa. – Magari un’altra volta…

– Già, come sempre – Alfred le rivolse un sorriso deluso, poi si alzò per andare a servirsi un’altra porzione del rancio.

Cristilde lo osservò allontanarsi, desiderando provare almeno un po’ di rammarico per l’occasione perduta, ma dentro di sé non trovò nulla. Si sentiva come un mucchio di braci ormai spente, che non sapevano trovare il calore necessario per bruciare di nuovo.

Tornò a sbirciare in direzione della donna. In effetti, nessuno nella sala si avvicinava a lei, nonostante le occhiate di aperta ammirazione e curiosità che le venivano indirizzate da ogni lato, né lei pareva interessata a ricercare compagnia.

Siamo soldati. Che senso ha farsi degli amici, per poi perderli uno dopo l’altro?

La donna trangugiò l’ultima goccia sul fondo del suo corno, quindi andò a riempirlo di nuovo fino all’orlo dalle botti in fondo alla sala, per poi dirigersi con andatura leggermente traballante fuori dal refettorio. Un improvviso silenzio seguì la sua uscita, silenzio che pochi attimi dopo si animò di mille voci e pettegolezzi sulle sue gesta durante gli ultimi anni della guerra contro i Quattro. Così lontani dal Regno, quegli uomini e quelle donne spesso vivevano solo delle storie delle terre che si erano lasciate alle spalle.

Cristilde si accorse di non essere dell’umore adatto per sentirle. Si alzò a sua volta e lasciò la sala, decisa a ritirarsi per la notte. Gli alloggi degli ufficiali erano dall’altro lato del cortile, presso uno dei masti che torreggiavano sulla lunga e imponente linea difensiva che divideva le Terre Conosciute dalle Lande Selvagge occidentali. Cristilde amava inerpicarsi lungo gli stretti gradini che conducevano fino alla sommità della torre, per osservare le misteriose foreste, irte di pericoli, che si estendevano oltre il confine, e per rimirare le stelle che brillavano mute nel cielo fin quando non cominciava ad albeggiare.

Era meglio che affrontare gli incubi che funestavano le sue poche ore di riposo.

Stava passando nei pressi delle latrine comuni, all’angolo nord del cortile, quando udì un gemito sordo provenire dall’interno. Il suo primo impulso fu di far finta di niente e proseguire – chi fa gli affari suoi, campa cent’anni! Ma dato che non aveva intenzione di vivere così a lungo, e sapendo che, se qualcuno stava male, presto o tardi qualcun altro sarebbe venuto a chiamarla per prestargli soccorso, emise un sospiro ed entrò per controllare la situazione.

All’interno scorse una sagoma piegata sulla latrina, apparentemente intenta a rigettare anche l’anima in quel buco. Quando si raddrizzò e si voltò, pulendosi la bocca con il dorso della mano, Cristilde riconobbe la donna delle Piane.

– Be’, che hai da guardare? – la apostrofò Ottavia – Non ci sono abbastanza cessi per tutti, qui?

Prima che la cerusica potesse rispondere, l’altra barcollò, in preda a un altro conato. Cristilde l’impulso la sostenne, e come risultato gli schizzi di vomito le arrivarono fino agli stivali.

La donna impiegò ancora un po’ a liberarsi del tutto lo stomaco. Niente di cui stupirsi, dato che aveva prosciugato da sola quasi un intero barilotto di birra. Infine riprese fiato e gettò un’occhiata di traverso verso Cristilde, mettendo a fuoco le sue mostrine.

– Non dirmi che sei un ufficiale!

La cerusica scrollò le spalle. – Un ufficiale medico – precisò.

– Merda, merda, merda! Finirete per mandarmi via anche da qui, eh? – l’altra strizzò gli occhi, scocciata – Gli ufficiali di solito si incazzano a morte se vomito sui loro maledetti stivali. Idioti! Non capiscono che vomitando la sbornia passa prima?

– Basterebbe non ubriacarsi.

– Fottiti! Che sei, mia mamma? O un fottuto prete?

Cristilde contemplò di nuovo l’idea di levarsi di torno e lasciare quella donna insopportabile ad arrangiarsi da sola insieme alla sua sbornia. Era un’ottima idea.

Ma non sono un fottuto prete, e non ho il diritto di giudicare. Ognuno ha i suoi metodi, per tenere a bada i propri demoni.

Le porse il braccio. – Avanti, vieni con me!

Ottavia era dannatamente pesante. Era più alta di lei di una buona spanna, e aveva il fisico di chi ha trascorso tutta la vita all’aria aperta, a svolgere lavori pesanti. Non c’era di cui stupirsi del fatto che fosse la combattente formidabile dipinta dalle storie sul suo conto.

– Dove sono gli alloggi che ti hanno assegnato? – domandò Cristilde, mentre la trascinava fuori, nel cortile.

– So una sega – borbottò l’altra – Appena sono arrivata, ho posato le armi mentre un altro tipo con le mostrine cianciava roba inutile, e sono andata subito a cercare da bere.

Fantastico! Cristilde represse un’imprecazione tra i denti. Dubitava di riuscire a farsi tutto il cortile in quelle condizioni, per portare Ottavia fino alla camerata comune, e percorrerla in lungo e in largo per trovarle una branda libera.

I suoi alloggi erano molto più vicini.

Una volta presa la decisione, si passò il braccio della donna sopra le spalle e prese a camminare in quella direzione.

– Scusa – biascicò Ottavia dopo un po’ – Per gli stivali.

– Lascia perdere. Te l’ho detto, sono una cerusica. Il vomito non è la roba peggiore che mi è finita addosso.

– Sì, nel refettorio parlavano di una brava cerusica, qua alla guarnigione. Ti darò un sacco di lavoro, sai?

– Meglio se non ti metti a fare troppo l’eroina, qui. Giganti, orchi, barbari… ce ne sono a frotte di nemici che non vedono l’ora di farti la pelle.

Ottavia ridacchiò. – Non se io la faccio prima a loro – una pausa, in cui Cristilde temette che le vomitasse di nuovo addosso. Invece l’altra riprese: – Chi ti ha detto che faccio l’eroina?

– Nel refettorio cianciavano anche di una certa mozza-teste… – Cristilde sbuffò sotto il suo peso – Se uccidi un uomo, sei un assassino. Se ne uccidi mille, diventi un eroe. Soprattutto se sei dalla parte di chi vince.

– La verità è che in guerra non ci sono eroi, solo sopravvissuti.

Cristilde le lanciò un’occhiata di sottecchi. Non era la risposta che si aspettava da una palese spaccona ubriaca fradicia.

Rimasero in silenzio per il resto del tragitto. L’alloggio della cerusica era una piccola stanzetta alla base del mastio, comunicante con gli ambienti adibiti a piccolo spedale, al momento per fortuna privo di feriti. Misurava poco più di quattro passi ed era arredata con una rustica branda, un tavolinetto su cui teneva poggiati i suoi testi medici e i suoi attrezzi da cerusico, un catino con una brocca per le abluzioni (un lusso garantito solo agli ufficiali) e una cassapanca, chiusa, che Cristilde teneva rigorosamente più lontano possibile dal letto. C’era una piccola finestrella strombata, che garantiva un minimo di illuminazione naturale nelle ore diurne, e che adesso faceva penetrare nella stanza i raggi argentei della luna.

Cristilde non si curò di accendere la lampada a olio e, con un ultimo sforzo, adagiò Ottavia sulla branda. La donna aveva già gli occhi chiusi e, dopo pochi attimi, prese a russare sommessamente. Doveva essere esausta per il lungo viaggio per arrivare fin lì, o in preda ai fumi dell’alcool, o, cosa più probabile, entrambe.

La cerusica rimase a osservarla, incerta sul da farsi. Avrebbe potuto dormire in terra, le era capitato più volte durante la sua vita militare, oppure mettersi a ristudiare qualche trattato anatomico a lume di candela. La verità era che dubitava di riuscire ad addormentarsi o a concentrarsi con la presenza di quella donna nella stanza.

Ottavia si mosse nel sonno. Prese a mugolare e un nome le affiorò con un gemito alle labbra: – Amanyta…

Cristilde uscì dalla stanza e richiuse delicatamente la porta alle sue spalle per non svegliarla.

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