Au bout du voyage I – Gente che viene, gente che va

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Ce l’avevo nel cassetto ormai da mesi! Per chi (oltre al menco) avesse la pazienza di leggerlo… Lo so che è roba vecchia, ma sapete com’è 😀

 

Corte Celeste, 9° giorno del mese di Spica.

 

– Intendi portar via tutte quelle carte, sorellina?

– No, queste le spedisco a Mastro Galenus. Tanto io ho già trascritto quel che mi interessa sapere… E comunque posso sempre tornare a consultarle, fra un annetto, non trovi?

Hakù scrollò le spalle, continuando a ripulire dal sangue e dalla polvere la katana che aveva prestato alla veggente qualche giorno prima. Tutto sommato era ancora in buone condizioni: si fidava di sua sorella, ma non era riuscito a trovar pace nel sonno finché lei non era tornata, riconsegnandogliela sporca, sì, ma ancora in buono stato. Era solo per lo zelo fuori dalla norma che contraddistingueva la sua stirpe che continuava a lisciare la lama, certo che vi fossero microscopiche macchie di sangue che non riusciva a vedere, certo, ma che sicuramente si annidavano da qualche parte.

I due stavano lentamente sistemando i propri ristrettissimi bagagli, cercando di far mente locale sui rispettivi itinerari da seguire e sulle cose che occorreva comprare prima della partenza per il lungo, lungo viaggio che li attendeva di lì a qualche luna. Anche se non sapevano con esattezza quando avrebbero lasciato l’Occaso, per motivi diversi ormai nulla li legava a quell’angolo di mondo.

Melisenda stava riponendo dentro la sua sacca personale il libro di suo padre, sistemandolo con attenzione nella tasca più interna, quando una voce interruppe la sua delicata manovra.

– Siete voi due i figli di Kasumoto?

Il samurai scoccò un’occhiata gelida e calma al nuovo arrivato, mentre la veggente voltò appena la testa, seccata di esser stata disturbata. I due si trovarono davanti un ometto dai folti capelli rossi un po’ radi sulla fronte, dal fisico ancora asciutto e scattante nonostante la pancetta incipiente. Osservava i due fratelli con occhi di una bizzarra tinta grigiastra, e un’ombra di pizzetto conferiva alla sua espressione un tono un po’ beffardo.

– Sarà il caso che siate prima voi a presentarvi, non trovate? – replicò secca Melisenda, senza scomporsi troppo.

– Ah, sì, giusto. Voi non sapete niente. Kasumoto mi aveva avvertito, accidenti a lui.

– Non sappiamo niente di COSA? – ribatté lei, con tono leggermente più acido.

– E che cosa avete a che fare con nostro padre? – le fece eco il fratello, sospettoso.

– Ahhhhh, ragazzi! – lo sconosciuto sollevò le mani, con un sorriso comprensivo stampato in faccia. – Rilassatevi! Lo so, lo so, per voi deve essere stata dura, in questi ultimi tempi… quando ho saputo che eravate qui e avevate a che fare con niente meno Desmodar Sceleron, beh, ho cercato di precipitarmi in questa valle di lacrime, ma i vostri nomi sono giunti fino a me solo qualche luna fa, e allora…

– Sentite – sbottò la veggente, spazientita e tagliente, – non abbiamo tempo di ascoltare quest’inutile fiume di parole! Se non l’avete notato, stiamo per partire! Quindi, o parlate chiaramente, e dall’inizio, o vi sbattiamo fuori di qui a calci nel…

– Ecchellinguaggio!!!! – l’uomo scoppiò a ridere ma poi, cogliendo lo sguardo di fuoco che i due fratelli gli avevano scoccato all’unisono, si affrettò a calmare i bollenti spiriti. – No, avete ragione, abbiate la pazienza di ascoltarmi senza interrompere e io cercherò di non perdermi in vaneggiamenti… dopotutto, sono qui per un motivo molto importante, e per una promessa fatta ad uno dei più cari amici che io abbia mai avuto.

I due fratelli si scambiarono uno sguardo d’intesa, annuendo gravemente. Il samurai si limitò a fare un cenno all’uomo di sedersi, mentre la veggente si appoggiò al tavolo, incrociando braccia e gambe, in attesa.

Lo sconosciuto approfittò dell’invito e si sistemò placidamente su un comodo scranno, mettendosi a suo agio.

– Ahhh, mi ci voleva proprio… beh, non perdiamoci in chiacchiere, eh? Sì… giusto… partiamo… partiamo da… ah, sì: il mio nome è Dorian Kazhakjan, e attualmente vivo sulle coste di Gelbha, quasi alle porte di Scentiar, ma un tempo calcavo le vie di ventura insieme a Kasumoto Sushimada e ai veri genitori di Hakù… erano bei tempi quelli, eh sì! Ma per il momento lasciamo stare i ricordi… fatto sta che intorno all’anno 2990 dell’Era dei Quattro io e Kasumoto ci perdemmo di vista, e non so dove andò a rintanarsi finché, quando ormai Sua Maestà – sapete, io ho combattuto per lui, nel Sud! – si era stabilito alla Capitale, un bel giorno non me lo ritrovai davanti alla porta di casa, ingrigito e intristito ma fresco come una rosa… ricordo perfettamente che gli brillavano gli occhi, e io speravo che se ne volesse partire di nuovo per qualche bella avventura, come ai vecchi tempi… dopo tutto mica eravamo decrepiti, sapete! E invece no, era venuto solo perché doveva chiedermi un favore…

I due fratelli lo osservavano in perfetto silenzio, osando a malapena far rumore per respirare. Lo stomaco di entrambi era chiuso saldamente in una morsa.

– E insomma, beh, sì, io ero sorpreso, ma un amico è un amico, che diamine! ‘Ma certo’, gli faccio, ‘per te tutto quello che vuoi, vecchio amico!’… e lui mi fa, serio come mai l’avevo visto in vita mia, ‘ascolta bene le mie parole, tu che per me sei quasi un fratello: fra più di venti anni in questo angolo di mondo passeranno una donna e un giovane uomo che forse sapranno, o forse no, di esser legati da uno strano vincolo di parentela… per me costoro sono insieme gioia e dolore, e io per loro rappresento la stessa cosa. Un giorno loro verranno in questi luoghi e, se potrò, sarò io a dir loro di cercarti, altrimenti, appena avrai notizie di loro, devi promettermi che sarai tu stesso a tentar di raggiungerli, a costo della tua stessa vita. Te lo chiedo in nome della nostra antica amicizia e ti giuro sul mio onore che se mai potrò…’ ma a quel punto lo interruppi, perché non ho mai sopportato che lui tirasse in ballo il suo onore o le sue solite esagerazioni da samurai… un amico è un amico, e fa quel che gli chiedi senza voler nulla in cambio, giusto? Bene, questo è quel che gli dissi…

Non una mosca volava nella stanza. Non avrebbe osato.

– E allora lui annuì, e io lo incalzai… ‘va bene, va bene, Kasumoto, e una volta che ci saremo incontrati, che devo fare con loro?’ e lui mi disse ‘devi consegnargli due oggetti e, se ne avranno, rispondere a tutte le loro domande su di me e sul mio passato… tutto quel che sai, mi raccomando… non risparmiare nulla, nemmeno i punti in cui siamo sempre stati in disaccordo… che sappiano ogni cosa.’ Ovviamente io non capivo nulla di quel che mi stava dicendo, ma un amico è un amico e non fa domande, così gli dissi ‘va bene, Kasumoto, così sia, fidati di me!’ e lui sembrò molto sollevato… mi consegnò due oggetti come aveva detto, mi fece tante raccomandazioni, poi alla fine mi abbracciò e mi disse ‘la ragazza si chiama Mel’Ishnd Mitzuko Tensh’Elijh, il ragazzo Hakù Sushimada’ e io allora sgranai gli occhi… ‘Sushimada hai detto? Ma allora…’ e lui sorrise e annuì dicendo ‘sono i miei figli… i miei… amatissimi… figli…’, e lo disse scandendo bene le parole, sissignore! Poi si voltò e, beh, sparì, silenzioso, senza dire nient’altro. E quindi eccomi qua, ho tenuto fede alla mia promessa, come vedete.

Per alcuni istanti il silenzio nella stanza era così compatto e solido che lo si sarebbe potuto affettare a fil di katana. Un lievissimo fischio proveniva dalla gola di Melisenda, barricata dietro gli occhiali scuri. Fu Hakù stavolta a parlare per primo.

– E… dunque?

– E dunque ecco qua. – Dorian armeggiò con alcuni lacci che gli tenevano assicurato un lungo pacco alla schiena, ben assicurato fra panni di seta grezza. Dopo averlo slegato, porse il rotolo di stoffa a Hakù, facendogli cenno di prenderlo.

– Questo mi disse di darlo a te… mentre questa… – dalla borsa da cintura estrasse un cilindro anch’esso avvolto in un drappo di seta grezza, legato con un nastro rosso e sigillato da cera dorata, e lo tese a Melisenda – …questa invece è per te. Si è raccomandato che fossi tu la prima a leggerla.

I due fratelli si scambiarono un’occhiata interrogativa, carica d’ansia. Hakù iniziò a srotolare la seta che nascondeva chissà quale prezioso ricordo di suo padre trattenendo a malapena il tremore delle mani. Il suo volto era una maschera di calma freddezza, ma qualcosa non poteva fare a meno di agitarsi dentro di lui.

Quasi sobbalzò quando dall’involto estrasse una katana dalla fattura inusuale, in grado di rivaleggiare con le più belle spade che avesse mai avuto modo di maneggiare: era leggerissima, ma dava l’impressione di essere estremamente resistente e potente. Era impossibile non considerarla una vera e propria opera d’arte: la lama era incrostata di rune, ideogrammi e caratteri appartenenti all’antica lingua desertica, incisi con grande precisione e maestria fino ad intrecciare un grande arabesco che avvolgeva tutta la lunghezza dell’acciaio. Anche l’elsa era finemente decorata e intrecciata di nastri rossi un po’ consumati. Guardandola con estrema attenzione, rapito dalla bellezza di quell’oggetto, Hakù si rese conto che ogni decorazione rimandava a un motivo specifico: un drago dell’Est, lungo e affusolato, che circondava un occhio spalancato, dalle ciglia leggermente allungate. Non aveva mai visto quell’arma prima d’ora… o forse…

– Ma quella è Ryushin, Hakù… – Melisenda sobbalzò. Non aveva ancora aperto il cilindro, che comunque sembrava effettivamente contenere un lungo rotolo di pergamena.

– Di che stai parlando, sorella?

– È la spada di papà. Fu mia nonna a farla forgiare per lui da mio nonno… è con quella che l’ho sempre visto allenarsi e partire in viaggio. È la spada che cingeva al fianco quando se ne andò dal Deserto.

I tre rimasero in silenzio. Hakù strinse forte l’impugnatura della spada, contemplandola, lo sguardo perso in un punto molto distante nello spazio e nel tempo. Dunque in quell’arma era intriso il passato del suo maestro… quante battaglie… quanti ricordi… quanti segreti e lacrime racchiuse in essa…

Era talmente preso dai suoi pensieri che non si accorse che Melisenda aveva cominciato a srotolare lentamente la pergamena, scritta in finissimi ideogrammi, e a leggerla. Non si accorse neanche di quando era stato che, piano piano, sua sorella era scivolata a terra, inginocchiandosi con le labbra serrate, gli occhi scuri inondati dalle lacrime, ma senza un tremito, senza un lamento.

Quando infine il samurai ritornò presente a se stesso, lei aveva già richiuso il rotolo, respirando con un leggero affanno, levando gli occhi verso Dorian, che li osservava piuttosto preoccupato.

– Vorrei che ci lasciaste soli un attimo, se possibile.

– Ah, ma certo, certo! – si affrettò a dire l’uomo, alzandosi di scatto – Vado in corridoio, eh? Quando volete che torni, fate un fischio.

 

La porta si richiuse senza far rumore e i due fratelli rimasero soli, gli occhi dell’una ben puntati verso quelli dell’altro.

Trascorsero alcuni minuti senza dirsi assolutamente nulla, come se anche solo lasciare che il sangue scorresse nelle loro vene comportasse una certa fatica.

Poi, lei si alzò, reggendosi a malapena sulle gambe, e porse il rotolo al fratello.

– Leggi.

E Hakù lesse, ad alta voce.

 

“Villaggio di Talos, Colli di Giada.

Giorno decimoterzo del mese di Sirio, Terzo Anno del Regno Eterno


Mitzuko, Hakù, miei amati figli,

spero che questa lettera non vi giunga mai, poiché in questo caso vorrà dire che sono vivo e ho potuto rimediare al male causato sia all’uno che all’altra, e che il Fato ha finalmente voluto riunirci.

Tuttavia, quello di scrivervi ogni cosa è stata volontà diretta della mia onorevole Signora, la Venerabile Kaessandria Ashavari Tensh’Elijh… la quale (forse tu, Mitzuko, l’avrai già intuito, poiché ti ha allevata e cresciuta) è stata l’unica e sola artefice di ciò che è stato, colei che ha tirato i fili di un’immensa manovra volta a permettere al suo popolo di sfuggire ad un destino di morte e distruzione… un disegno talmente grande di cui nemmeno io sono stato messo a parte, ma che ho sentito vibrare in ogni sua parola, in ogni suo gesto e in ogni suo sguardo.

Lasciate che racconti a entrambi cosa è accaduto fin dall’inizio.

Dopo che ebbi lasciato la compagnia di ventura di cui facevo parte e dopo che mi fu riferito della grave onta di cui il rinnegato ma-jin si era macchiato, avevo cercato di rifugiarmi a Nord, per meditare sulle pochezze dell’animo umano e sul futuro che mi si prospettava. Avevo sentito parlare del Fanciullo Guerriero, ma non nutrivo molte speranze riguardo alle sue azioni, o per lo meno non ebbi modo di rifletterci a lungo perché venni scoperto, e in breve tempo molti degli scagnozzi imperiali iniziarono a inseguirmi per giorni e giorni, finché non fui costretto a varcare la soglia delle Sabbie, dove i miei inseguitori, convinti che sarei morto di stenti in un luogo così ostile e senza vita, decisero di non avanzare oltre, limitandosi ad assicurarsi che non potessi tornare indietro.

Trascorsi molti giorni trascinandomi sotto il sole rovente… fui stupido e inutilmente orgoglioso, e non volli nemmeno togliermi l’armatura: non era certo una morte onorevole, esalar l’ultimo respiro mordendo polvere e sabbia, quindi tanto valeva che mi alleggerissi nella speranza di guadagnare abbastanza tempo da riuscire a trovare un’oasi. Non so se sarebbe stato sufficiente, ma comunque non ha importanza, poiché ad un certo punto persi i sensi, stremato dal caldo e dagli stenti, in preda ad una sorta di febbre delirante. 

Quando mi risvegliai, impiegai molto tempo a rendermi conto di dove fossi e cosa mi fosse successo, ma trovai davanti a me la donna più bella che avessi mai visto, Naima Jessamine Tensh’Elijh. Ella mi aveva salvato la vita, sottraendomi all’abbraccio rovente delle sabbie del Deserto; appena ne distinsi le forme dal buio che ancora mi attanagliava la mente, disteso su un giaciglio di lino profumato e fresco, seppi che la sua opera di salvezza non si sarebbe esaurita a quel gesto di grande pietà. Appresi dunque ad amarla perdutamente e nel mentre feci la conoscenza di sua madre, la Venerabile Kaessandria Ashavari. Se la figlia era quanto di più dolce e desiderabile esistesse al mondo, la madre era l’incarnazione della saggezza e della nobiltà d’animo, e per me presto divenne il simbolo stesso dell’onore. Decisi di diventare il suo devoto servitore, e lei accettò pur facendomi promettere che non avrei rivelato a nessuno il nostro legame, nemmeno alla sua amatissima figlia. Il suo consorte, che tu Mitzuko non hai potuto conoscere, forgiò per me Ryushin, l’Occhio del Drago, che mi fu fedele compagna per molti lunghi inverni e brillanti primavere, e che adesso lascio a voi due. 

L’unione fra me e Naima fu benedetta dall’Occhio di Shi-Ryu nonostante io fossi uno straniero, e quindi ebbi l’onore di poter diventare il compagno di una donna così bella e piena di virtù. In seguito, circa nove lune dopo il mio arrivo presso i Laes ‘n Dahlar, la tua nascita, Mitzuko, fu per me motivo di infinita gioia, tale come mai avevo provato prima; in quell’occasione tua nonna scelse da sola il tuo primo nome, andando contro ad ogni tradizione. A nessuno, forse nemmeno a te, spiegò mai il motivo di tanto mistero, ma sembrava che l’Occhio di Shi-Ryu benedicesse e sostenesse ogni sua decisione, per quanto oscura fosse. Ella mi conosceva bene, e anche in quell’occasione seppe leggere nei miei pensieri: io mi crucciavo sapendo che non avrei potuto fare di te la mia vera erede e farti apprendere le arti del bushido, poiché tu eri stata destinata dal vostro divino protettore a qualcosa di molto particolare – mi disse la mia signora – diverso anche dal destino di Prima Veggente. Qualcosa di grande ti attendeva sulla strada, dunque, e non mi era dato di interferire in questo disegno. Ma la Venerabile Kaessandria non mi rimproverò né accettò che io mi vergognassi dei miei ingrati pensieri: anzi, mi disse che, sebbene non avrei potuto avere altri eredi dalla mia dolce compagna, un giorno avrei trovato il modo di coronare il mio sogno. Un giorno, dunque, avrei trovato qualcuno che potesse assimilare tutti i miei insegnamenti e combattere al mio fianco al servizio della giustizia e del bene. 

La vita scorreva serena e in armonia presso i Laes ‘n Dahlar ma, in capo a qualche tempo, benché fra di loro avevo tutto, iniziai a sentire la nostalgia delle vie di ventura; la Venerabile mi comprendeva, e mi inviava spesso lontano dalle vostre genti a combattere per proteggervi, o per compiere ricerche di cui solo lei comprendeva il senso, e che quindi non saprei riferirvi. Un giorno, però, mi chiese di recarmi molto, molto lontano. Dopo quasi un anno il mio cuore già era impaziente di riabbracciarvi ed ero ormai a poche miglia dal confine di Erigas… ma, mentre mi lavavo il viso in una polla  limpida, ella mi contattò attraverso il riflesso sull’acqua e mi ordinò di ritornare sui miei passi. Mi chiese di recarmi a Telemar, dove avrei trovato – disse lei – la possibilità che attendevo da una vita. Là, come avrei scoperto, i miei due vecchi compagni di ventura, Jorge e Liana, attendevano il terzo figlio, che era destinato ad esser ucciso dalle autorità imperiali perché alle genti di quel villaggio non era consentito avere più di due figli. A me sarebbe stata data la possibilità di portarlo via appena nato e adottarlo come fosse mio. L’idea mi aveva elettrizzato e non stavo più nella pelle: avrei portato nel Deserto il bambino, l’avrei educato come un samurai grazie anche all’aiuto e all’amore di Naima, e la mia piccola avrebbe avuto un fratellino con cui giocare. 

Ma le mie fantasie durarono pochi istanti: la mia signora mi ordinò di tornare non appena avessi preso accordi con i miei antichi amici, sì, ma solo per abbandonare te, mia dolce Mitzuko, e tua madre nel modo più crudele possibile. In poche parole, dovevo fare in modo che voi mi odiaste così profondamente da non potervi mai più riprendere. Non capivo come avrei potuto fare a continuare a vivere con il pensiero che le mie due gioie erano state ferite così mortalmente proprio da colui che più di tutti le aveva amate, eppure avrei dovuto farlo, e non solo in nome del mio onore di samurai, ma per il bene stesso della vostra comunità. La mia Signora non mi spiegò mai il perché di quella terribile prova, ma mi disse che era l’unico modo per sfuggire a una terribile catastrofe che avrebbe spazzato via le vostre genti. Parlò di “salvare le vostre anime”, mi giurò che non esisteva altro modo, e che aveva preparato tutto da ben prima che io arrivassi, da prima che nascesse la stessa Naima. Io non potevo far altro che fidarmi di lei, della mia Signora.

Ma le disgrazie per me non erano finite: la Venerabile mi annunciò che il mio destino era comunque segnato. Aver sacrificato la famiglia all’onore avrebbe attirato l’attenzione della vergogna della nostra stirpe, e majin sarebbe venuto a cercarmi non appena il rimorso e il rimpianto si fossero fatto più sottili e tremendi.  Ancor oggi ci penso, penso a quando sarà il giorno in cui busserà alla mia porta, quando verrà a reclamare la mia anima lordata di una colpa così grave. Ma mi tranquillizzano le parole che lei mi disse quella notte, ovvero che non dovevo avere paura, che l’odio che mia figlia avrebbe nutrito per me alla fine si sarebbe rivelato il nodo focale della mia salvezza e che i miei due figli sarebbero riusciti dove io avrei fallito. 

Sì, mi fidavo ciecamente della mia Signora, per quanto terribili fossero i suoi ordini. Mi fidavo e giurai che avrei seguito alla lettera tutte le sue istruzioni. Con questo, sancii la disperazione di mia figlia, la salvezza di colui che sarebbe diventato il mio erede e la mia dannazione.

Ma il tempo delle parole non era finito. 

Mi fece giurare che a te, Hakù, non avrei mai rivelato nulla dell’esistenza della mia vita nel Deserto Grigio, né di tutte le persone a me care. Poi, mi ordinò di consegnare al mio antico amico Dorian una lettera che potesse raccontarvi ogni cosa, benché la mia Signora fosse ben consapevole che non sarei certo in grado di spiegare quale fosse il bene superiore per il quale dovevo rassegnarmi ad essere il disonore della mia famiglia e l’orgoglio della mia stirpe. Mi chiese di imporre a te, figlio mio, una volta che tu fossi diventato il mio erede, il nome di Hakù Hashim, “bianco” e “colui che sconfigge il male”, con la promessa di non rivelarti mai il tuo secondo nome fino al momento in cui avresti letto questa mia missiva. Inoltre, grazie a una visione mi indicò l’esatta ubicazione della sacra Murasame, che cingo adesso al fianco al posto di Ryushin. La mia Signora non mi disse di cercarla, ma di rivelare a te dove si trovasse, una volta che i tempi fossero stati maturi. Non sento tuttavia di averle mancato di rispetto recuperandola prima del tempo: poiché su di me pende una tremenda minaccia, credo forse di riuscire ad affrontarla meglio se avrò al mio fianco un così potente cimelio. 

Comunque, come mi era stato detto mi recai a Telemar e questa parte della storia, Hakù, la conosci molto bene. L’unica cosa che non sai è che, preso da un impeto di comprensione paterna, chiesi ai tuoi genitori se non preferivano riaverti una volta che il la guerra fosse finita (ed ero certo che il Fanciullo Guerriero avrebbe vinto). In quel modo avrei distrutto ogni cosa e spezzato il cuore alla mia compagna e a mia figlia per nulla e compresi immediatamente l’errore che avrei commesso. Invece, i tuoi genitori rifiutarono, sostenendo che insieme a me avresti avuto la possibilità di apprendere qualcosa che loro non avrebbero mai potuto insegnarti. Furono coraggiosi, ed io non fui alla loro altezza. Ma da quel giorno cerco di espiare la mia debolezza e spero che negli anni che avremo passato insieme da padre e figlio, maestro e allievo, io sia riuscito a colmare il vuoto dato dall’assenza di coloro che più di tutti ti hanno amato e a non farti mancare nulla di ciò che conta davvero. 

E tu invece, Mitzuko, conosci bene cosa è accaduto in seguito: tornai da voi e tua nonna, come promesso, ti tenne lontana da me, altrimenti nessun giuramento d’onore mi avrebbe trattenuto dall’abbracciarti stretta e dal portarti via con me insieme a tua madre, e difendervi fino alla fine dei miei giorni. Sarei venuto meno alla parola data, mi sarei reso disonorevole agli occhi della mia Signora, forse tutta la tua tribù sarebbe davvero stata distrutta, ma avrei avuto la possibilità di passare altri anni felici con voi e con il piccolo Hakù, e di dare la mia vita per sottrarvi al destino di morte che pendeva su di voi. A volte mi chiedo se non sarebbe stato meglio agire così, ma ormai il fiume del tempo è scorso sotto i miei piedi, e non posso risalire la corrente della mia infinita amarezza e inadeguatezza.

Avrei voluto crescervi insieme, figli miei, vedervi giocare sullo stesso prato verde o attorno alla stessa calda polla d’acqua, qui o nel Deserto, purché foste insieme. Avrei voluto che tu, Hakù, avessi anche una madre affettuosa ad allevarti, e Naima ti avrebbe cresciuto come se fossi stato suo, con tutto l’immenso amore di cui era capace. Avrei voluto, se solo vi fosse stato questo scritto nel mio destino e nel vostro. 

Se adesso state leggendo questa lettera, se adesso siete davvero insieme come la Venerabile Kaessandria aveva predetto, sappiate che vi ho amati entrambi più di ogni altra cosa, anche attraverso il dolore che mi porto sempre addosso. Nessuna delle parole che ho detto a Naima in quel giorno terribile è vera, nessuno tranne la mia Signora poteva spingermi a proferire assurdità e menzogne del genere. L’amavo come il primo giorno, la amo tutt’ora e l’amerò per sempre, oltre la vita e la morte. Eppure ho anteposto a lei il mio onore.

Majin si è perso per amore della sua compagna e per l’incapacità di conciliare i suoi sentimenti con il suo dovere. Forse dopotutto è destino che anche io mi perda ed è giusto che la mia anima venga tormentata in eterno dal rimorso e torturata dalle ombre. Anche se nulla di tutto questo potrà mai rendervi gli anni perduti in un baratro di sofferenza.

Non so nulla di ciò che è accaduto nel Deserto Grigio e non lo saprò mai finché non rivedrò la mia amata figlia, se mai accadrà. Mi devo rassegnare a crescere il mio erede da solo, con il peso di tutti i miei ricordi, eppure consapevole di aver fatto l’unica cosa possibile. Poiché adesso non posso consolarti in alcun modo, piccola Mitzuko, posso solo sperare che la splendida donna che sarai diventata non avrà trovato solo dolore nella via difficile che le si è prospettata davanti, e che la tua gente si sia presa cura di te al meglio. E a te, Hakù, posso solo dire che spero di aver mantenuto la promessa che ho fatto a me stesso, alla mia Signora e ai tuoi genitori, di averti dato tutto l’amore e l’affetto di cui sono capace e anche di averti insegnato tutto ciò che sapevo. Se leggerai, vorrà dire che sono riuscito a proteggerti. E se leggerete insieme, vorrà dire che la storia è giunta al termine, e che finalmente vi siete ritrovati, e forse che io sarò libero.

Spero che, qualsiasi cosa ne sia stata di me, adesso sappiate di non essere soli. 

Che la luce della saggezza e della conoscenza vi accompagnino sempre, figli miei. 

Tutte le risposte che vi mancano forse si trovano altrove. Ma tutto il mio amore per voi è qui, intrappolato su questa pergamena, e spero possa accompagnarvi sempre, ovunque vi porteranno i vostri passi.


Con affetto e devozione, sperando che possiate perdonarmi.

Vostro Padre”

 

I due rimasero silenziosi molto, molto a lungo, talmente a lungo che il sole iniziò a calare senza che se ne accorgessero. L’una era rigida, lo sguardo rivolto alle assi del pavimento, il respiro appena percettibile. Sembrava tentare di dominare i suoi sentimenti, digerendo a malapena tutte quelle informazioni che in parte aveva già intuito. L’altro invece non riusciva a staccare gli occhi dalla splendida katana sulle sue ginocchia, quasi affaticato nello sforzo di immaginare cosa avesse visto quella lama. Nessuno dei due poteva o voleva parlare. Ma qualcuno doveva pur farlo.

– …non gliel’ha fatto giurare. Non l’ha fatto.

Hakù venne colto alla sprovvista. Di certo non avrebbe parlato lui per primo, ma comunque non si sarebbe certo aspettato quelle parole da sua sorella, che ancora teneva fisso lo sguardo fra due assi di legno a poca distanza da lei.

– Che vuoi dire, sorella?

Melisenda alzò lo sguardo, in cui c’era una nota di terrore e di sconcertante comprensione, e lo puntò sul fratello da sotto gli occhiali scuri. Stava cercando di abbozzare un sorriso, ma si trattava del ghigno più mesto e sconsolato che lui le avesse mai visto fare.

– Mia nonna poteva chiedergli di giurare di non recuperare la Murasame,- spiegò con calma Melisenda – ma non l’ha fatto. Sapeva che si sarebbe convinto di potersi salvare e di poterti proteggere…

– … ma non ci è riuscito. – Il samurai finì la frase con un sospiro leggero, rassegnato.

– Oh no, – commentò la veggente. Il suo sorriso adesso aveva una nota di sorda follia. – C’è riuscito benissimo, invece. Anzi, ci è riuscita benissimo. Se lui non avesse avuto quella spada fra le mani, Majin avrebbe ucciso anche te, perché eri l’allievo di un samurai. Un bocconcino tenero e facile. Lei lo sapeva. Sapeva che nostro padre, non vincolato da un giuramento, avrebbe tentato di recuperarla per riuscire a difenderti. E sapeva che Majin non si sarebbe sprecato su di te se avesse ottenuto qualcosa di molto, molto più interessante.

Un tremito scosse il samurai da capo a piedi. Quella donna, che lui non conosceva e che non avrebbe mai conosciuto, aveva sacrificato un cimelio così prezioso come la Murasame per esser certa che la sua vita fosse salvata? Lui che avrebbe dato la sua intera esistenza, ogni respiro per poterla recuperare? Era completamente folle, la nonna di sua sorella? Nessuna vita era più preziosa di anche solo una delle nove katane! Nessuna vita! Era mostruoso!

– Non posso crederci. Non può aver fatto una cosa simile! La mia vita non vale così tanto… la vita di nessuno vale così tanto!

– Ma stai scherzando, Hakù? – Melisenda lo apostrofò con rabbia – Non dire queste cose davanti a me, per favore. La tua vita è fondamentale e se non credi che lo sia, beh, allora pensa a quanto è costato alla tua stirpe tenerti in vita e cerca di renderla speciale, e di non sprecarla inutilmente! La Murasame da sola non ha certo protetto nostro padre, ma il tuo braccio è riuscito a dare una lezione a Majin anche senza di lei! Vuoi forse dire che questo non significa nulla? Eh?

Hakù non rispose. La rabbia gelida che gli ribolliva dentro stava per scaricarsi sulla sorella, ma qualcosa dentro di lui scattò prima, impedendogli di ribattere.

– E poi ricorda… – incalzò la veggente distogliendo lo sguardo – è stata un’idea di mia nonna… e la Venerabile Kaessandria non sbaglia mai. Mai. Mai, maledizione.

Il samurai rimase in silenzio ancora una volta, con un’espressione lugubre dipinta sul volto. Avrebbe voluto dire molte cose, in verità, ma nessuna di senso compiuto. Nessuna che potesse commentare adeguatamente ciò che avevano scoperto, o di cui avevano ricevuto al conferma. Colse solo di sfuggita le parole di Melisenda, che erano nient’altro che un sussurro.

– Lei gli ha tenuto nascoste molte cose. Moltissime cose. Per questo bene superiore ha rubato la vita pure a lui. Non gli ha detto che mia madre sarebbe morta. Non gli ha detto che la Murasame doveva essere scambiata per la tua vita. Non gli ha detto nulla di quello che al momento non so nemmeno io. Mi chiedo davvero perché tutti quanti abbiamo dovuto pagare un prezzo così alto. Voglio saperlo.

Per la prima volta, Hakù sentì di volerlo sapere davvero pure lui. Non avrebbe accompagnato sua sorella nel Deserto per puro amore fraterno. Era lui che voleva andarci. E alla svelta.

Il silenzio fu lungo, molto lungo, ancora una volta. Era già notte avanzata quando a Dorian venne concesso di smettere di bivaccare nel corridoio.

Ma la notte, per lui, sarebbe stata ancora molto lunga.

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