Cambiamenti – Parte 1

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Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventere se non fate nulla per cambiarla.

“Và che dopo è troppo tardi per tornare indietro!”
“Non ti preoccupare, taglia come ti ho chiesto, per favore.”


Il rumore delle forbici nelle sue orecchie era quasi un mantra, un rituale. Con gli occhi chiusi assaporava la sensazione, ciocca per ciocca. Non poteva vederle cadere, ma sentiva distintamente il loro incedere sulle spalle.
Ben presto il pavimento si tinse di rosso, ma non era sangue.
Erano diventati davvero troppo lunghi.
“Non ti stanno neanche male, alla fine, ma mi spieghi perché li porti così corti? Lunghi ti donano molto di più!” chiese Filomena, riponendo le forbici.
“Si impigliano continuamente tra i rami, nei bottoni. E’ fastidioso…”
Una verità parziale. Avrebbe dovuto aggiungere che la sensazione di capelli che si strappano, la riportava a quel giorno di tanti anni fa, quando quell’imperiale torreggiò su di lei. L’idea di avere ancora la sua mano attaccata con violenza alle sue folte ciocche la faceva sentire piccola, inerme e impaurita.
Filomena alzò un sopracciglio e la fissò con eloquenza, senza dire una parola. Astra lo sapeva che aveva fiutato qualcosa, lo faceva sempre, come se avesse un potere particolare in quella determinata sfera delle emozioni umane.
Fiutava la paura… e le CAZZATE.
“Sì, certo.” soffiò seccata, mentre finiva di riporre le sue cose.
“Sì, CERTO!” fece eco Astra, acida.
Ecco. Succede sempre così. Soprattutto da quando era morta e passata dal subisso: le cose erano decisamente cambiate. Lei era cambiata.
Il fuoco che le avvampava dentro bruciava come fosse vivo. Ogni parola storta, ogni discussione, erano polvere nera che esplodeva. Con ogni emozione negativa amplificata spesso il controllo in combattimento andava a farsi benedire, così come nei rapporti umani.
Avrebbe volentieri ceduto un braccio, un occhio… ma non pezzo della sua anima. Dagon si era preso parte della sua tolleranza, parte della sua gentilezza, parte della vera Astra.
Alcune volte erano incendi che divampavano a lungo, altre volte invece erano piccole scintille, come quelle di una cadela ormai al suo termine. Destinate ad esaurirsi prima ancora di rendersi conto della loro stessa esistenza.
Si mise immediatamente le mani davanti alla bocca, tappandola e sgranando gli occhi. Realizzò cosa era appena accaduto e le vennero le lacrime agli occhi.
“Oddio, Scusa Filomena! Mi dispiace, non volevo in alcun modo mancarti di rispetto, io…”
“Ehi, non c’è problema.” le mise gentile una mano sulla spalla “Guarda che lo so che quando parlì così non sei tu, ma la tua cicatrice. Noi esoteri comprendiamo meglio di chiunque altro le difficoltà del tornare dal Subisso. Mordecai ci ha insegnato e molti di noi lo hanno visto di persona cosa significa. Tipo me, mannaggia a Fungoberto.”

Aveva ripensato a quel momento mentre camminava per l’accampamento dello Spiantato, in cerca di un posto isolato dover poter pregare, calciando di tanto in tanto qualche sassetto. L’erba ai lati del viottolo era ormai alta e dorata, così come il frumento dei campi, pronto per il raccolto.
Perché non poteva avere quegli scatti d’ira e vigore quando comparivano gli imperiali? Perché tutto quello che riusciva a fare era scappare, nascondersi e piangere?
Dentro di sè lo sapeva. Quell’orrore, quel terrore quasi ancestrale la divorava, facendole dimenticare il mondo attorno sè, le persone a lei care. Eppure, se in quei momenti non ci fossero stati Antares e Lucius a sostenerla, la sua mente sarebbe crollata in oscuro baratro senza fine.
La incrociò per un breve attimo e lo sguardo verso di lei che scherzava con Ranjan e Tristan. Si interruppe solo un breve attimo per salutarla.
Astra sorrise, lo sguardo però triste. Ricordò del momento in cui Antares si era gettata su di lei, abbracciandola stretta come una sorella, tra il cozzare di spade e le grida della battaglia. Aveva stretto Astra così forte da farla piangere ancora di più. Subito dopo era arrivato Lucius che le aveva accarezzato la testa, gentile, cercando di consolarla “No, caramellina, non piangere!”
Ma come poteva, non piangere?
La paura si era trasformata in rabbia, in dispiacere, in odio per sè stessa. Anche Antares stava male a causa del passato che era tornato a bussarle alla porta a causa di quella sua vecchia conoscenza. Eppure trovava la forza per starle vicino.
Cosa aveva saputo fare lei, invece? Tutto quello che poteva fare era ascoltarla, mentre le parlava di ciò che era stato e di come si sentisse per averla rivista, di quello che aveva fatto e delle decisioni che aveva preso.
Avrebbe potuto fare di più, per chiunque. Non appena aveva trovato un briciolo di coraggio per scagliare un incantesimo sul demone uscito dalla giacca di Vinicio, si disperò nello scoprire che non era servito a nulla. Fu come soffiare su un albero di quercia e sperare che il flebile spostamento d’aria potesse abbatterlo con la stessa violenza di un’ascia.
Furono vane speranze in un vano tentativo. A causa della sua inutilità, Ciri era morta.
Le era stato detto che non era colpa sua, che avere paura era del tutto normale, ma come poteva crederci? Anche quando era andata a scusarsi con lei e aveva scoltato le sue parole di conforto, non riusciva a decolpevolizzarsi. Non riusciva a trovare pace perché ancora una volta non aveva fatto niente per impedire che qualcuno morisse.
Quella sera aveva abbracciato forte la sua spada, che aveva preso a brillare e ad emanare calore, come un tocco gentile. Aveva cercato forza in lei, come faceva da tanti anni da quando suo fratello l’aveva abbandonata. Era l’unica cosa, assieme al suo retaggio di sangue, che ancora la teneva legata alla sua vecchia famiglia, alla sua vecchia vita, ai suoi obbiettivi lì nella scacchiera e ai misteri in essa celati.
Quella reliquia ancestrale incompleta, ultraterrena, era come fosse viva e percepisse i suoi pensieri e desideri.
“Aiutami, ti prego…” le aveva sussurrato con la fronte sul caldo metallo “…Aiutami a trovare un briciolo di forza dentro di me” poi la baciò, esattamente come si poteva baciare un simbolo sacro, mentre la stringeva tremando. La spada brillò, quasi in risposta, ma Astra non poteva in alcun modo capire che cosa significasse.
S’illuse semplicemente che potesse funzionare.

“Sono inutile”

Rivolse le sue preghiere e le sue domande agli Astri, sapendo che mai avrebbe ricevuto una risposta nella Scacchiera, soprattutto una come lei. Non era “degna”.
Non era mai stata una fervente adoratrice prima di conoscere Balthazar. Nel suo passato, nonostante i tentativi di insegnamento di Valerian, tutti sapevano di quanto fosse pericoloso professare. Erano pochi coloro che sfidavano la sorte, l’impero, e il resto di quel mondo angusto che gli era contro, per seguire l’unica via giusta. La vita degli angeli.
Ripensò alle parole di Cristilde e quelle di Ottavia. Quanta saggezza, quanto coraggio e gentilezza vi era nella loro verità. Come lei avevano visto orrori inenarrabili, ma a differenza sua avevano combattuto e sedato per sempre il giogo dell’impero.
“Io invece sono scappata…”
Suo padre aveva voluto che lei vivesse, diceva Cristilde, perché le voleva bene e perché la sua vita contava per lui.
Si vive per il presente, per i nostri compagni, facendo tesoro dei momenti felici passati che ci appartengono e ci dicono chi siamo. Le parole di Ottavia risuonavano come un eco lontano.
Strinse ancora di più le mani tra le proprie dita, fino a provocarsi dolore.
Pianse, supplicando pietà e clemenza ad Aldebaran e chiese la forza ad Alazhar di riuscire a cambiare il proprio destino.
Nessuna risposta venne udita. Solo lo spadone venne pervaso da una fioca luce rossastra, riscaldando la schiena di Astra.
“La luce degli Astri rischiara anche le vie più oscure”
Sciolse le mani dalla morsa e si asciugò gli occhi. Non c’erano voci a raggiungerla, ma la fede era anche questo. Era speranza, era dedizione e… saper chiedere aiuto.

Calciò un altro sasso sulla via del ritorno. I suoi passi stavolta erano più veloci, perché lei aveva una rinnovata forza. Sapeva che non poteva aspettarsi un miracolo, non lì. Non in quel posto.
Se voleva il cambiamento, doveva venire da lei. Doveva essere lei il miracolo che stava cercando, ma le serviva una mano.
Entrò nella zona degli allenamenti, dove venivano montati su picche dei manichini di yuta imbottiti di paglia. Quei buffi e articolati pupazzotti che Sigrun si divertiva a prendere a pugni, ogni volta che qualcosa non le andava a genio, e cui Estrella si divertiva ad appiattire la testa o dar fuoco.
Si aspettava di trovarci molta gente e invece no, doveva essere già ora del desco. C’era soltanto una persona, un uomo che era nello Spiantato da tanto tempo quanto lo era lei. Qualcuno così dedito all’allenamento, al perfezionamento delle proprie abilità che spesso rimaneva da solo, quando non era impegnato ad addestrare le nuove reclute.
“Allan” lo chiamò Astra.
L’uomo fermò lo spadone da allenamento sulla spalla del manichino dopo aver compiuto un arco sulla propria testa. Fece un profondo respiro, mentre si sgranchiva le spalle, per poi girarsi verso di lei. La guardò, sudato fradicio e rosso in viso. Molto probabilmente era lì sin dalla mattina preso e non aveva mai smesso di roteare la sua arma.
“Dimmi” fece semplicemente, asciugandosi il sudore con la manica della propria camicia bianca.
Astra notò con piacere che lo spadaccino stava indossando alcuni pezzi d’armatura presi dall’armeria. Che si stesse allenando per sopportare il loro peso?
“Potresti insegnami la scherma, per favore?”
Allan strabuzzò prima gli occhi, sorpreso dalla richiesta. Ci dovette pensare un attimo, forse nella sua testa vi erano troppe domande a cui dare una risposta. Per una volta scelse di non essere impulsivo, almeno in parte.
“E c’è da chiederlo?” chiese ironicamente “Possiamo iniziare anche subito!”
Astra diventò raggiante alle sue parole e fece fatica a trattenere un gridolino di felicità. Un unico salto di eccitazione sul posto, per ricordarsi che Allan non si era magicamente volatilizzato e di certo non stava sognando.
Si schiarì la voce, ricomponendosi “Prima uniamoci agli altri al desco, il mio insegnante deve essere in forze!”
“Giusto” rispose e nell’immediato, al pensiero del cibo, realizzò qualcosa che lo fece diventare bianco cianotico “Cazzo, ho perso di vista Jhon!”

Continua…

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