Accettare il volere di Nhea

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La decisione di Meike di tornare al fronte, di affrontare nuovamente quelle paure che l’avevano bloccata tanti anni prima, era stata sicuramente una delle più difficili della sua vita.
Solo Nhea sapeva quante notti aveva passato a rigirarsi insonne nel suo giaciglio, per poi alzarsi all’alba ancora inquieta; quante preghiere la donna aveva rivolto all’Angelo Bianco perché le desse la forza di mantenere la sua decisione, di compiere quello che non era riuscita a fare da fanciulla.
Non era certo rimasta inoperosa: vivere nel tempio e adempiere alle funzioni di sacerdotessa, celebrando matrimoni e feste di nascita; educando i bambini rimasti orfani di una guerra che non risparmiava nessuno; curando i feriti a lungo termine che giungevano alle camere di guarigione; erano tutte opere pie e necessarie e lei vi si era prodigata incessantemente per anni, sin dal suo ritorno dal fronte.
Aveva rinunciato a tornare ad abitare al feudo, in attesa di ereditarlo (e quanto avrebbe preferito non essere l’unica erede), aveva voluto ogni singolo callo che le sue mani riportavano, aveva desiderato ogni sera in cui la fatica l’aveva fatta crollare dal sonno su una sedia e qualche consorella l’aveva dovuta accompagnare nella sua camera.

Ma non bastava.
Il calore che sentiva nel cuore ogni volta che adempiva alla volontà della Dea rimaneva smorzato, flebile, come se la misura non fosse mai abbastanza colma.
Le ci erano voluti anni, anni in cui si era nascosta dietro la giovane età, la poca esperienza, dietro a scuse sciocche e fragili come ragnatele, ma alla fine, dopo notti intere in preghiera di fronte all’altare di Nhea, Meike aveva accettato la verità e l’aveva accolta.
Era stata codarda.
Era fuggita di fronte al cammino che la Dea aveva per lei tracciato e quel calore, la luce che si irradiava dal suo cuore, si era allontanato, in attesa che lei lo raggiungesse.

E alla fine, tornata al fronte, stava finalmente percorrendo il cammino per cui l’Angelo Bianco l’aveva scelta: alleviare le sofferenze del suo popolo, con parole di conforto, con i suoi canti, a volte semplicemente con una carezza su un volto contratto dal dolore.

Dopo alcune settimane dal suo arrivo, mentre era indaffarata a coordinare le ragazzine che adempivano ai compiti che lei stessa aveva avuto alla stessa età, un attacco più violento degli altri portò incessanti ondate di feriti, molti dei quali necessitavano dell’aiuto divino dei chierici presenti.
Ad un tratto due barellieri le si fecero incontro con un ragazzino giunto appena il giorno prima per il suo anno al fronte, lasciando la sua barella di fronte ai suoi piedi e tornando subito a prestare la loro opera sul campo di battaglia. Non ne conosceva il nome, ma ne aveva riconosciuto gli occhi impauriti e smarriti e la sera prima aveva diviso con lui l’ora del pasto ed una tazza di brodo per tenersi caldi in quelle nottate abbracciate dal gelo.
La profonda ferita al ventre e il sangue che gli colava dalle labbra esangui non lasciavano il benché minimo dubbio su quale sarebbe stato il destino del giovine, se un cerusico o un sacerdote non fosse accorso in fretta, ma vista l’ondata immane di feriti, tutti coloro a cui lei aveva fatto riferimento in quel periodo erano impegnati con altri soldati, altrettanto e più gravi.
Il ragazzo aprì allora gli occhi castani e il suo sguardo sofferente ed implorante incrociò quello della donna. Meike sentì gli occhi bruciarle di lacrime e cadde in ginocchio di fronte al ferito.
Tremante, prese una delle sue mani con la sinistra e rivolse, implorante, la destra al cielo.

“Nhea, Bianco Angelo di Luce, signora della vita, ti invoco, ti prego…” sussurrò, la voce rotta.
Il suo desiderio di salvare quel giovine fu tutto proiettato in quella mano rivolta al firmamento celeste.
Per un attimo, ogni suono di battaglia si spense attorno a lei, i gemiti dei feriti, le sue stesse lacrime. Il calore e la luce che sembravano irraggiungibili nel petto le esplosero intorno, e parole che aveva tante volte udito e a volte ripetuto, senza alcun risultato, le sgorgarono dalle labbra, assieme al volere della Dea che dava loro forza e sostanza.

“Per il potere Divino, io ti curo!” esclamò allora Meike, portando la mano rivolta al cielo a contatto con la ferita del giovane.
Il calore passò dalla mano della sacerdotessa al corpo del ragazzo, e per alcuni istanti il tempo sembrò fermarsi.
Gli occhi del ragazzo si sgranarono sorpresi, e il respiro, che un attimo prima era stato gorgogliante e soffocato dal sangue, tornò profondo, la pelle martoriata dalle ferite fu sanata, lasciando sottili linee rosse che si sarebbero schiarite col tempo.
Meike portò entrambe le mani alla bocca, soffocando un singulto improvviso.
Nhea… Nhea le aveva concesso il suo favore.
Aveva finalmente trovato ed imboccato la strada che per lei la Dea aveva previsto.
Il ragazzo si alzò a sedere e la guardò con occhi lucidi, con un sorriso commosso ed incredulo.

“Io… io vi devo la vita Fräulein… Consideratemi vostro debitore.” Le disse, prendendole una mano. Meike lo osservò attonita per qualche secondo per poi scuotere il capo.

“Non hai alcun debito con me, io faccio solo la volontà della Dea.” Gli rispose, la voce rotta dalla commozione. “Se proprio desideri sdebitarti, dimmi il tuo nome, così che io possa ricordarlo per sempre.”

“Kurt Amsel, Fräulein..?”

“Meike… chiamami Meike.”

“Vi ringrazio, Fräulein Meike.”

“Io ringrazio te, Kurt Amsel.”

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