Lago Isalmyr. Morte e resurrezione.

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 Guardati. Guardati attorno.
    Lo sto facendo.
    Tutto ciò che tocchi, marcisce.
    Stronzate.
    Tutto ciò che entra in contatto con te, si decompone.
    Stronzate.
    Tutto ciò che ti ha dato l’illusione di poter provare amore, si è imputridito
    come quell’abominevole embrione che ti hanno strappato via a forza dal corpo.

    Stronzate.
    Tutto ciò che avevi te l’hanno tolto e ora non ti rimane più niente, niente,
    niente.

    Stronzate.
    Guardati attorno, è la verità.
    Stronzate. Solo stronzate.

Quattro giorni. Per quattro giorni era rimasta distesa a terra, con gli occhi sbarrati, guardando il soffitto attraverso il sipario di alcune lunghe ciocche di capelli polverosi, arruffati e sporchi di sangue.
Niente velo, niente campanelli, niente lenti… non aveva voluto tener su di sé nessuna delle cose che per lei avevano avuto un significato o un’utilità. Per la verità, si era tolta anche i suoi soliti vestiti.
Aveva giaciuto inerte e nuda sul pavimento, a contatto con il legno odoroso che ne costituiva il rivestimento. Su di sé, solo un mantello nero logoro che si era procurata al campo per nascondere i suoi lineamenti. Non voleva che nessuno la seguisse, che la riconoscesse e scoprisse che intendeva andare a rifugiarsi sull’Isal, dagli elfi della comunità di Salieth.
Per tutto quel tempo aveva tenuto ostinatamente le mani sul ventre, stringendolo senza alcuna forza. Non aveva più nemmeno un graffio, ma il suo corpo era diventato un mosaico di chiazze di sangue ormai stantio, il cui odore acre aveva impregnato l’aria soffocante della stanza sbarrata.

    Perché non vuoi vedere?
    Non c’è nulla da vedere.
    Perché non ti arrendi all’evidenza?
    Non c’è nessuna evidenza.
    Perché semplicemente non vuoi ammettere quello che è così chiaro
    davanti agli occhi di tutti?

    Non c’è nessuno attorno a me che possa vedere quel che vedo io.

Aveva rifiutato il cibo che le veniva offerto al di là della porta chiusa a chiave, parlando con voce calma ma arrochita dalla progressiva perdita dell’abitudine a dialogare col suo prossimo. Gli elfi avevano rispettato il suo desiderio di quiete e di silenzio, ma il padrone di casa non poteva esimersi dal controllare di tanto in tanto che non si fosse lasciata morire.
Ma lei non aveva la minima intenzione di morire.
Oh, no, la sua vita cominciava adesso.
Dopo quell’ultima, straziante coltellata che l’aveva trafitta e umiliata fin nel profondo dell’anima, il vaso che da sempre ribolliva nelle sue viscere era definitivamente esploso, disgregandosi in migliaia di schegge fumanti, mentre il suo amaro contenuto si era riversato tutt’intorno, dilagando inarrestabile fino a che ogni fibra di corpo e mente non era rimasta impregnata di quel micidiale distillato di odio, rabbia e spietatezza.

    Guarda, ti dico!
    Sto guardando.
    Guarda! Portavi qualcosa di meraviglioso dentro di te e non lo sapevi!
    No, non lo sapevo.
    Una piccolissima parte di William ancora viveva in te e non lo sapevi!
    Non lo sapevo.
    E poi è morto, morto, lo capisci?
    Lo capisco.
    Per quasi un anno l’hai portato comunque dentro di te e non lo sapevi!
    Non lo sapevo.

Nemmeno per un attimo aveva sentito il desiderio di lasciarsi andare o di suicidarsi, come qualsiasi altra donna avrebbe fatto nei suoi panni.
Eppure sentiva che qualcosa era definitivamente morto dentro di lei. Senza appello.
Dapprima non aveva ben compreso cosa le stesse accadendo ma, dopo qualche ora, questo nuovo senso di vuoto e cambiamento imminente era diventato un pensiero delizioso e terribile al tempo stesso.
Due giorni, e la sua mente aveva finito per diventare inaspettatamente lucida.
Tre giorni, e si era accorta che i suoi sensi di colpa non bussavano più alla porta della sua anima: l’idea che suo padre potesse essere una vittima innocente di una macchinazione molto più grande di lui, l’immagine di Kaessandria che la pugnalava alle spalle per chissà quale oscuro motivo, persino l’inconfessabile sensazione di rappresentare una disgrazia per tutti coloro che aveva amato… ogni cosa era sfumata, e non le provocava più alcun dolore o angoscia.
Quattro giorni, e tutto ciò che l’aveva sempre tormentata era svanito. Completamente.
Qualsiasi insulto, qualsiasi atrocità, qualsiasi ingiustizia adesso non le avrebbe fatto più né caldo né freddo.
Nessun serpente tentatore si sarebbe più potuto insinuare nella sua mente per farla dubitare dei suoi pensieri.
Né il nemico più subdolo, né l’amico più caro.

    Sei tu che hai ucciso tuo figlio! La tua rabbia l’ha ucciso!
    La mia rabbia uccide solo me.
    Il tuo odio l’ha avvelenato!
    Il mio odio avvelena solo me.
    Correvi qua e là e non ti accorgevi di star strangolando nelle tue viscere
    il frutto della persona che amavi!

    Non potevo saperlo.
    È morto, morto, morto!
    Meno male, povero figlio mio. Meno male.

All’alba del quinto giorno di veglia aveva chiesto una tinozza colma d’acqua bollente e degli abiti puliti.
Si era lavata via il sangue con estrema lentezza e precisione, quasi fosse perfettamente in grado di ricordare la storia di ogni chiazza rossastra e ne stesse riprendendo il filo, per imprimersela ancor meglio nella memoria.
Ogni singola cosa che aveva vissuto, anche il dettaglio più doloroso, più crudele, più insostenibile non sarebbe mai stato dimenticato. Mai, per nulla al mondo, avrebbe desiderato che questi terribili ricordi scolorissero nell’oblio del Tempo, il Grande Cerusico che allevia ogni ferita.
Aveva pensato anche a questa eventualità, e aveva voluto esser certa che non accadesse mai.

    Ora loro l’hanno preso!
    No.
    L’hanno usato!
    No.
    L’hanno contaminato!
    No.
    Perché non vuoi ammetterlo?
    Mio figlio è morto. Ovunque si trovi adesso, è al sicuro da loro.

Forse i suoi amici avevano pensato che sarebbe diventata pazza.
Aveva baciato il sanguinario re Aldegar sulle guance dopo che lui e Silverion le avevano squarciato il ventre per prendere il loro prezioso carico. Era rimasta in piedi, dritta come una stele di ghiaccio, mentre i due Re del Sole Nero portavano a termine il loro blasfemo rito perché l’arcidemone Desmodar Sceleron potesse incarnarsi in un corpo mortale. Non aveva quasi sbattuto le palpebre mentre dinanzi a lei il ciclo vitale di un feto si srotolava in una manciata di secondi, arrestandosi solo quando era arrivato a svilupparsi in una creatura appena uscita dall’adolescenza. Aveva allontanato chiunque cercasse di portarla via da quello spettacolo tremendo, di confortarla, di starle vicino in qualsiasi modo. Si era ritratta dall’abbraccio dell’amato fratello (nemmeno un’ora prima avrebbe fatto carte false perché lui la stringesse a sé per confortarla!), non si era nemmeno accorta che Gith, stimato amico e compagno, cadeva proprio poco distante dai suoi piedi, straziato dai colpi di Aldegar. I suoi occhi erano inchiodati sulla figura che la derideva, chiamandola mamma.
Sì, sicuramente potevano solo pensare che ormai il suo brillante cervello era definitivamente andato in malora.

E invece era stato proprio in quel momento che aveva compreso tutto.
Per questo, dopo esser stata derisa e umiliata, aveva addirittura regalato un sorriso alla creatura che le aveva sottratto il corpo del figlio che non si era mai accorta di aver concepito. Un sorriso di miele e sangue, donato con tutto il cuore.

    Avresti dovuto piangere, implorare, urlare pietà!
    A che scopo?
    Avresti dovuto urlare contro di loro parole di rabbia e vendetta!   
    Non l’ho forse fatto?
    Non hai detto una parola!
    Se non mi hanno sentita, peggio per loro.
    Tu non hai fatto nulla!
    Io ho fatto tutto quel che dovevo fare.
    Non hai fatto nulla!
    Se non si sono accorti di ciò che ho fatto, peggio per loro.

Dopo essersi allontanata dai suoi aguzzini, prima di scomparire fra le ombre del vespro che ormai cominciavano ad allungarsi, aveva preso la sua decisione irrevocabile. In realtà non ci aveva riflettuto su nemmeno un attimo: nella sua testa era accaduto come se da sempre sapesse che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi, e lo avesse riconosciuto all’istante. A dir la verità, razionalmente, se glielo avessero detto non avrebbe mai creduto che un giorno avrebbe mai potuto spingersi a tanto. Ma ora tutto questo non le importava.

Aveva invocato il nome di Hor-Yama.
Un nome che non avrebbe significato nulla per nessuno dei suoi compagni, che delle millenarie tradizioni del Deserto Grigio non conoscevano nulla, e a cui comunque nessuno avrebbe mai osato rivolgersi a cuor leggero. Ma ciò che le era stato fatto era imperdonabile, oltrepassava ogni limite di comprensione e invocava una punizione per il colpevole che fosse atroce quanto il male compiuto.
Questa era stata l’unica cosa che aveva desiderato fare dal momento in cui si era specchiata nelle iridi verdastre di colui che l’aveva umiliata una volta di troppo. Aveva quindi deciso che avrebbe assecondato il suo desiderio a qualsiasi costo.

Per questo aveva pronunciato il Voto della Vendetta Senza Pace.

    Desmodar Sceleron ti ha schiacciata!
    Desmodar Sceleron ha commesso un gravissimo errore.
    Desmodar Sceleron ti ha umiliata!
    Desmodar Sceleron è caduto in fallo.
    Desmodar Sceleron ti ha punito per la tua arroganza!
    L’arroganza di Desmodar Sceleron gli sarà fatale.
    Ma come puoi essere così presuntuosa da pensare di poterti misurare con lui?
    Ha voluto strafare. E certi errori si pagano cari.

Ancora immersa nell’acqua ormai tiepida, con lentezza indicibile massaggiava ogni parte del suo corpo, come per assicurarsi che tutto fosse al suo posto, pronto al suo comando.
Non sopportava l’idea di dover stare ai comodi delle sue membra, che al momento erano così stanche, così deboli, così maledettamente inutili.
Lucida come non era mai stata prima di quel momento, la sua mente adesso scandagliava ogni dettaglio, sistemando via via ogni tassello al suo posto e facendo piazza pulita dei suoi ultimi sensi di colpa, zavorra inutile, erbacce senza utilità difficili a sradicarsi. Ma anche gli ultimi cattivi pensieri ormai stavano cedendo.

    Tu, misera mortale! Cosa hai da opporre alla sua mente così infinitamente
    geniale?

    Me stessa.
    Tu non sei niente!
    Io sono io.

Non subito, non presto, non senza difficoltà… ma lei poteva schiacciare quella serpe. Poteva e voleva. Lo desiderava con ogni fibra del suo corpo.
Che importava se sarebbe stato o no un rimedio definitivo contro quell’abominio? Le bastava di vederlo umiliato, sconfitto, piegato, completamente fuori di sé dalla rabbia, impotente davanti ai suoi piedi. L’orgoglio di Desmodar doveva andare in mille pezzi dinanzi a lei.

    Tu non sei niente!
    Io sono colei che ha dato vita a quel corpo. E lo rivoglio.

Quello era il punto. Riprendersi ciò che era suo. Riprendersi il frutto dell’unica notte d’amore che il Fato le aveva mai concesso. L’unico istante in cui aveva compreso cosa significasse davvero essere una donna era racchiuso nel corpo che Desmodar aveva dissacrato. Se lei non poteva riprenderselo, allora nessuno avrebbe mai più potuto averlo. E niente e nessuno avrebbe potuto fermare la sua vendetta.

    Tu non sei niente…

    E se proprio vuole usarlo…
    Tu non sei…
    E se proprio non vuole ridarmelo…
    Tu non puoi…
    …allora ne pagherà amaramente tutte le conseguenze…
    Tu non…
    …e potrà incolpare solo se stesso…
    Tu…
    …quando per lui sarà troppo tardi per sottrarsi al destino…
    Non…
    …quando vedrà l’Occhio della Distruzione di Hor-Yama spalancarsi
    davanti a lui…

L’avrebbe fatto. Ora più che mai, l’avrebbe fatto, o la sua vita sarebbe stata per sempre priva di alcun senso.
Ora, adesso. Per nessuno, per nessun altro a parte se stessa.
L’avrebbe fatto.

    …finché la madre non distruggerà il corpo del figlio.

Adesso era pronta.

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4 comments

  1. bellissimo, davvero bello…e io che sono a Mordian a cercarti :P. Non vedo l’ora di rivedere in gioco Melisenda! Miralys approverebbe molti la vendetta…:)

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