Quando la polvere si poserà

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Esiste un piccolo evento a Port Anchor che segna la fine dell’inverno, o almeno della sua parte più rigida.  C’è una piccola finestra di tempo, di solito di un paio di giorni, tra il momento in cui i ghiacci iniziano a mollare la presa sul fiordo e quello in cui le navi più grandi riprendono a solcare il mare. I gòra lodowa, le grosse montagne di ghiaccio che nella stagione fredda prendono possesso della baia di Port Anchor, spariscono sciogliendosi lentamente quando i primi venti tiepidi iniziano a giungere da sud. In quei due giorni in cui i marinai si organizzano per ripristinare le navi più grandi e riportare in secca i piccoli pescherecci spaccaghiaccio, nel fiordo si vedono le balene. La prima cosa che annuncia il loro arrivo è uno sbocciare di fiori d’acqua sopra le onde, i loro soffi improvvisi e potenti; poi le loro sagome scure si alzano oltre la superficie marina, esibendosi in balzi e piroette accompagnate da spruzzi poderosi come flutti di tempesta. La voce delle balene, un muggito risonante e armonioso, si fa strada tra le vie del porto fino all’orecchio di ogni cittadino di Port Anchor, come a rassicurarlo che la primavera giungerà a breve. Due giorni prima che le baleniere scendano in mare e che la caccia ai cetacei inizi; due giorni in cui i maestosi animali vengono a rincuorare l’uomo con la promessa di un tempo migliore per poi venire braccate, in un rito vecchio come  il mondo. In città si scommette spesso sul momento in cui le balene arriveranno. Se sei un dilettante non ti giochi mai più di una stretta di mano e della tua parola sul giorno che credi giusto, mentre i più esperti tentano di azzeccare addirittura l’ora in cui la prima bestia soffierà. I fiocinatori più anziani arrivano a buttare giù diversi falconi quando hanno il sentore che il momento è prossimo; gruppi di scommettitori allora si appostano dalle parti del porto, in capannelli impellicciati e alticci, con gli occhi fissi sull’orizzonte.

Hari era sempre stato affascinato da questo piccolo appuntamento annuale. Per anni dalla finestra della sua stanza riusciva appena a intuire la presenza dei grossi animali; le testimonianze entusiaste di Vivi, i racconti di babushka Ekaterina, le illustrazioni dei suoi libri, tutto contribuiva a far maturare in lui un interesse che non poteva soddisfare in alcun modo. Le cose poi cambiarono, e anche Hari fu tra quelli che potevano assistere all’evento. Per anni, quello diventò un piccolo rituale nel rituale: il giovane saliva sul tetto di casa con una fiaschetta di buon liquore, una pelliccia sulle spalle e qualche pezzo di ugol a bruciare dentro un vecchio paiolo di rame. Fu così che Hari scoprì il più inutile fra i suoi talenti: sapeva sempre quando le balene stavano per arrivare. Forse un sesto senso bizzarro, forse una fortuna sfacciata, forse un odore che solo lui poteva avvertire; l’intuizione lo costringeva a mollare qualsiasi cosa stesse facendo, prendere il necessario e recarsi sul tetto passando dalla finestra della soffitta. Non era mai capitato che le balene si facessero aspettare per più di un quarto d’ora. Se la sensazione si fosse presentata prima, magari il volk avrebbe anche fatto in tempo a correre al porto e scommettere un paio di idre; questo talento avrebbe almeno avuto l’utilità di far guadagnare qualcosa una volta all’anno. Niente, neanche quello. Hari però non si lamentava di questo. Gli piaceva guardare le balene. Ci rimaneva le ore, anche dopo che le braci nel paiolo si erano spente e la fiaschetta si era svuotata; avvolto nella pelliccia, stringeva le ginocchia al petto e guardava le acque del fiordo incresparsi, le sagome grigie dei cetacei innalzarsi verso il cielo, i loro giochi fra i flutti, e ascoltava il loro canto etereo, rapito. Non sapeva perché tutto ciò fosse così speciale per lui, ma lo era, e non riusciva a condividere quel momento con nessuno; non per vergogna, per gelosia, o per la presunzione che nessuno lo avrebbe vissuto come lui, ma per una totale incapacità di spiegare quel che provava. Era una cosa sua, e non sapeva nemmeno bene perché.

Quella mattina Hari si svegliò con la precisa sensazione di dover andare sul tetto immediatamente. Il sole fuori non era ancora sorto e un vento freddo spazzava le strade di Port Anchor sollevando gli ultimi residui di neve. “Non può essere”, pensò, “al porto la scommessa più vicina dà l’arrivo a non meno di due settimane.” Si doveva essere sbagliato, quest’anno. Si girò nel letto, improvvisamente scomodo. Si tirò la coperta fino al collo. Sprimacciò i cuscini. Niente. La sensazione non passava.

Devi andare, gli diceva quella brutta stretta allo stomaco. Una stretta che sentiva tutti i giorni da ormai… da ormai…

Dalla Ferme Arbònne, continuò la sensazione. Dannazione.

La stava schivando da quasi due lune, quella sensazione. La ricacciava giù, in qualche angolo del cervello, quando si presentava; qualche volta lo prendeva alla sprovvista, come un pugno allo stomaco che mozzava il fiato. Gli tendeva agguati tra le pagine di un libro, in un refolo di vento che alzava una foglia secca, in un riflesso nell’angolo dello specchio. Hari la accantonava subito, prima di darle il tempo di parlare: non voleva sentire quello che aveva da dire. Non aveva bisogno di altre parole. Non voleva e non doveva capire.

Quella mattina, però, la sensazione aveva scelto di cavalcare l’istinto per le balene di Hari. ‘Perché?’ si chiese il ragazzo. Niente da fare però: ormai era tardi. Doveva salire sul tetto, col suo liquore, la sua pelliccia e la sua pentola piena di carbone, e aspettare che le balene si presentassero, oppure la sensazione non sarebbe svanita. Finché non avesse assecondato la voce che gli diceva di rispettare il suo appuntamento annuale, anche l’altra eco di sottofondo non se ne sarebbe andata. Aveva trovato una crepa nella corazza di Hari e ci si era insinuata.

Port Anchor, a quell’ora della mattina, era avvolta ancora in una bruma oscura e silenziosa. Il vento soffiava debole, ma gelido e tagliente, portando con sé l’odore pungente della neve vecchia. Le tegole del tetto erano una coltre brinata e scivolosa, una trappola che chiunque sano di mente avrebbe evitato, ma non era il caso di Hari in quel momento. Doveva essere lì. Tutto il suo corpo lo stava urlando, ogni angolo del cervello era come una fanfara di luci e suoni esplosivi. Le balene stanno arrivando!, risuonava nella sua testa una voce allegra; eppure dietro essa, in agguato, c’era l’altra sensazione. Hari si sedette nel solito punto. Il mare, distante, sembrava quasi fare le fusa ritmicamente, con la superficie che si increspava di spuma bianca, l’unica cosa visibile nella penombra che precedeva l’alba.

– Dobbiamo parlare – mugugnò Hari stendendo le mani sopra i tizzoni di ugol per scaldarsi. – Lo so che ci sei.

Lo sentiva che lei era lì. I suoi occhi non dovettero neanche cercarla. Seduta accanto a lui, anche lei con le ginocchia strette al petto, stava Katja. La chioma bionda si muoveva appena al vento, molto meno di quanto avrebbe dovuto fare, e l’abbigliamento della donna consisteva nella camicia bianca e nel corsetto che indossava in quel giorno lontano di metà autunno, quando si erano conosciuti. Lo sguardo della ragazza vagava a cercare qualcosa di lontano, con l’espressione seria e assorta. Hari non l’aveva mai vista così.

– Katja – bisbigliò come a richiamare la sua attenzione. Lei si voltò appena, ma almeno adesso dava l’impressione che lo stesse guardando. Rimase così, indecifrabile, senza proferire parola; a malapena sembrava che respirasse.

– Lo so che non sei veramente qui – continuò Hari, – ma so anche che non c’è bisogno di impazzire per perdere un po’ il senno. Io, dal giorno in cui sei morta, ho iniziato a perderlo. Un po’ per volta. Un giorno per volta.

Tirò un lungo sospiro e appoggiò il mento sulle ginocchia. La pelliccia che gli copriva la testa formò una sorta di caverna in cui il volto di Hari sembrava sparire.

– Non so spiegarmi il perché. Ho retto la morte di mia madre, perché sapevo che era stata vittima di un maleficio più grande di noi. Ho retto la morte della Zarina, per quanto è durata, perché in fondo al cuore sapevo che non sarebbe potuta finire così, e non mi sbagliavo. Ho retto la morte di Iker, di mio zio… perché nonostante la rabbia, nonostante il dolore, era qualcosa che aveva scelto lui.

Hari tentennò, la voce che si rompeva leggermente.

– La morte di Isabeau mi ha destabilizzato leggermente, è stata una piccola crepa, qualcosa a cui non ho trovato del tutto spiegazione. È stata anche quella una sua scelta, ma non potevo non chiedermi se sarebbe potuta andare in modo diverso. Anche questa, però, sentivo di poterla affrontare. Ne avevo il modo, ne avevo i mezzi.

Chiuse gli occhi, come a voler trovare la forza di continuare a parlare, ad affrontare la sensazione che si portava dentro.

– Non so però se supererò la tua morte, Katja. Non ero pronto ad affrontare quel che è successo. Le mie convinzioni hanno iniziato a sgretolarsi in quel momento, a sciogliersi come la neve inizierà a fare tra poco. Quello che davo per certo è sparito, e mi chiedo allora se davvero fosse solido come credevo. Io… io credevo che quello che stavamo facendo fosse una cosa giusta. Tutta la situazione tra noi e l’Impero, ce l’avevo così chiara in testa… L’Impero ci opprime? E noi reagiamo. Combattiamo, in nome della libertà, per un futuro migliore. Noi siamo nel giusto. Non esistono distinzioni nette tra bianco e nero, perché non esiste guerra che non abbia vittime innocenti, ma noi abbiamo la possibilità di rendere questo mondo un posto diverso.

Hari si strinse le ginocchia. Le mani gli tremavano ormai in modo incontrollabile.

– Questo credevo, finché non sei morta tu, Katja. No, aspetta: finché non ti ho ucciso. Fino a un attimo prima tu eri quella dal lato sbagliato della storia: una imperiale, una devota ai Quattro. Una nemica. Un pericolo. Un ostacolo da rimuovere. Tu… tu non eri quello, Katja. Tu eri una persona. Una persona come me, come gli altri. Una persona che ha fatto delle scelte nella vita, che ha provato emozioni, sentimenti, che credeva in qualcosa. Una persona normale, che ha trovato la sua fine per scelte non sue. Una vittima della situazione, stretta tra due forze più grandi di lei. L’Impero da una parte e gli ‘eroi’ dall’altra. Quando ho iniziato a calcare le vie di ventura qualche anno fa era tutto molto più facile, tutto più chiaro. Mi sentivo pronto a tutto, disposto a fare qualsiasi cosa per quello a cui tenevo. Credevo di essere uno con dei principi, e invece tutto si è rivelato essere molto più complesso di quel che credevo.

Il pugno di Hari cadde violento su una tegola del tetto. Dabbasso, un mucchietto di neve si riversò sulla strada.

– In quel momento ho capito, Katja. Noi non siamo per niente diversi dall’Impero. In fondo alla giornata quello di cui ci interessa è il nostro tornaconto personale, la cura del nostro orticello. Non c’è un giusto o uno sbagliato. Non ci sono ideali. C’è quello che ci torna comodo e basta. Non ci importa delle conseguenze. Non ci importa se qualcuno che non c’entrava niente muore per colpa delle nostre scelte. Problema suo. Sono state fatte scelte, Katja, che hanno condotto alla tua morte, e io ho scelto di voltarmi dall’altra parte per non vedere. Come l’Impero ha fatto altre volte, anche noi ti abbiamo tolto prima la tua libertà e poi la tua vita. Non siamo differenti da quelli che odiamo. Non siamo affatto differenti.

Hari alzò lo sguardo di scatto. C’era una rabbia crescente nella sua voce, una furia gelida e spietata, trattenuta perché non esplodesse ma bruciasse lentamente.

– Si sta preparando una tempesta, Katja. Una tempesta come mai se ne sono viste prima, e noi ci saremo proprio nel mezzo. Sarà brutale e inevitabile. Non so quando inizierà, né quanto durerà, ma un giorno finirà, come ogni tempesta. Se la Storia sarà cortese con noi, quando la polvere si poserà, di noi non rimarrà niente. Non il ricordo delle nostre azioni, non le nostre ipocrisie, non la nostra meschinità. Niente, non dovrà rimanere niente di nessuno. Una tabula rasa, un mondo nuovo che dovrà muovere i nuovi passi da zero. Niente Impero, niente eretici, briganti, o alieni di sorta, ma soprattutto niente di noi, di quello che siamo. Niente, perché nessuno di noi si merita niente.

Una calma improvvisa assalì Hari, che si voltò lentamente verso Katja. La donna era sempre lì, ma il suo sguardo era fisso di lui. Il debole accenno di un sorriso triste aleggiava sul suo volto pallido, un’altra espressione che Hari non conosceva di lei.

– Non voglio che resti niente di un mondo che ti ha ucciso, Katja. Non riesco a vedere cosa si dovrebbe salvare. Credevo che noi fossimo le balene che annunciano la fine dell’inverno, lo sbocciare di un nuovo futuro, un domani migliore. Eppure noi non siamo niente di tutto questo. Ci speravo, in fondo al cuore, ci credevo davvero e forse è per questo che tutti gli inverni mi spingo quassù per vedere le balene: perché spero che qualcuno un giorno mi guardi e vedendomi dica ‘Ehi, domani sarà un bel giorno’. Non sarà così. Nel momento in cui ho spento la tua vita tra le mie mani, ho capito che non sarà mai così.

Un debole chiarore dorato riscaldava ora la linea dell’orizzonte. La fitta bruma iniziava a tingersi di una tinta lattea, che ammorbidiva tutti i contorni del panorama di Port Anchor. Hari fece strisciare la mano fuori dalla pelliccia in direzione di Katja, ben consapevole che non avrebbe trovato niente. Si limitò a stringere un pugno di vecchia neve tra le dita.

– Non ti ho amato, Katja – ridacchiò sconsolato Hari, tirando su col naso. – Non mi fidavo di te, e non l’ho fatto fino a quando non è stato troppo tardi. Non saprò mai se le nostre strade fossero destinate a intrecciarsi; forse eravamo troppo diversi, troppo distanti, eppure non ti meritavi quel che ti è successo. Eri una persona vitale, brillante, indubbiamente messa al mondo per mettermi in imbarazzo…

Katja sorrise silenziosamente, ma adesso dava proprio l’impressione di stare guardando Hari.

– Non ti meritavi quello che ti è successo – continuò lui. – Nonostante le nostre posizioni su versanti opposti, non ti meritavi la fine che hai fatto. Non posso fare a meno di pensare a tutto quello che avrei potuto fare diversamente, ma soprattutto a quello che dovrei fare ora che non ci sei più. Quel ‘sei libero’ con cui mi hai lasciato pesa dannatamente. Era un augurio? Una condanna? Un perdono? Una maledizione? Come posso fare a scoprirlo? Dovrò vivere ogni mio giorno espiando per quello che ho fatto o viverlo pienamente, come avresti fatto tu?

Hari sentì un po’ di calore improvviso sul dorso della mano. La luce del mattino, sempre crescente, iniziava ad abbagliarlo e la figura della donna accanto a lui, tra la nebbia e le lacrime, era ormai quasi indistinguibile. La sua espressione enigmatica sembra quasi fondersi con il cielo mattutino, mentre le bionde chiome si confondevano con le volute della bruma spinta dal vento.

– Mi mancherai, Katja. Addio.

Adesso Hari era solo, sul tetto di casa sua. Il carbone bruciava allegramente nella pentola mentre i vicoli di Port Anchor iniziavano lentamente a prendere vita. Una nuova giornata stava iniziando. Il giovane volk si alzò, sgranchendosi la schiena e asciugandosi il viso con un lembo della pelliccia. Non si sentiva più leggero, né più sereno, ma sorrise ugualmente. Almeno aveva finito di fuggire. Iniziò a scendere dal tetto.

Bozhe moi! – gridò una voce da lontano, dal porto, seguita da molte altre. Istintivamente Hari alzò lo sguardo e vide il mare innanzi a sé.

Uno spruzzo bianco si alzò imperioso nel mezzo della baia, come un fiore d’acqua che sbocciava in mezzo al mare. Una sagoma scura si impennò nella nebbia, per ricadere pesantemente in una coltre di flutti chiari.

Le balene erano arrivate.  

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