L’orizzonte dei buchi neri

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Il freddo era pungente, adesso che era calata la notte, e la gente si accalcava per conquistarsi il calduccio intorno ai grandi falò da campo, nonché le tazze di vino caldo e speziato che Lana e Lucius distribuivano in gran quantità.
Nel campo dello Spiantato, subito adiacente alle tende del Crepuscolo, si stava celebrando il “lungo vespro”, una festività tipica dei Ducati che combinava atti di devozione – ovviamente – e attività mondane ben più prosaiche.
Cristilde si aggiustò sulle spalle il mantello di pelliccia. Le era piaciuto, l’inverno, quando ancora viveva nella magione di campagna della sua famiglia, ad Arath, e poteva trascorrerlo a leggere davanti al focolare, permettendosi di uscire soltanto in quelle giornate fredde ma soleggiate. Viandanti da altre contee negli ultimi anni avevano portato nella sua terra l’usanza di festeggiare la Malaverna: Cristilde ricordava i rami di corbezzolo e biancospino appesi sulle soglie, le grida sguaiate e le maschere grottesche indossate per strada dalla gente, in gran parte alemariti. No, non erano feste che si addicevano gli abitanti dei Ducati, né comunque a parecchi dei seguaci di Balthazar.
L’inverno le era piaciuto molto meno, in guerra, quando eri costretto a dormire sulla nuda terre o a marciare nel fango ghiacciato, con il gelo ti penetrava nelle ossa, ti strappava i polmoni e spesso anche qualche dito con la cancrena. Anche nella Scacchiera gli inverni erano rigidi. Una tenda da campo non proteggeva come mura di pietra.
E da quante notti il suo giaciglio rimaneva freddo?
Raggiunse il centro dell’accampamento, dove Cyra si stava esibendo con la sua liutarra. Il Cadetto dello Spiantato terminò in quel momento la canzone che parlava di Millus, struggente e carica di dolce amarezza come ogni volta che veniva ascoltata, e attaccò un motivetto più allegro e ritmato, anche se ben pochi dei presenti parevano intenzionati a darsi alle danze.
Cyra la scorse e, senza che le sue dita si fermassero sulle corde, le fece un cenno di saluto con il mento. Il suo sorriso che raggiungeva sempre gli occhi la invitava a prendere il tamburo e unirsi a lei.
Cristilde declinò con una scrollata del capo. Non era dell’umore giusto per suonare e cantare, era lì per cercare una persona.
Dato che non la vedeva da nessuna parte, si decise a chiedere. Lady Sigrun e Istrice erano in piedi poco lontano, i calici tra le mani e il calore del vino sui volti. Anche se il “lungo vespro” veniva celebrato dallo Spiantato, molti membri del Crepuscolo si erano uniti per approfittare di quella scorta di alcol accessoria e dell’occasione per scambiare due chiacchiere. O altro.
Sigrun e Istrice erano immersi in una fitta conversazione, che si interruppe bruscamente all’arrivo di Cristilde. La Thersiana si voltò a squadrarla. Era molto più rigida e composta in sua presenza, da quando Vinicio era morto.
Le voci correvano più del vento nella steppa, e Cristilde sapeva che lei, come altri membri dello Spiantato, aveva apostrofato i suoi con dure parole.
“Perché continuate a seguirla? Stavolta era Vinicio, la prossima volta potreste essere voi…”
“Se ti riveli un imperiale, puoi scommetterci,” avrebbe risposto Ottavia. La cerusica poteva quasi sentire la sua voce nella testa.
Aprì la bocca, ma Sigrun parlò per prima.
– Se cercate il vostro Alfiere, è a sbronzarsi con i nostri otri vicino alla quercia spezzata – sbottò sbrigativa.
– Veramente – obiettò Cristilde – sto cercando Astra.
Sigrun inarcò le sopracciglia. Non era la risposta che si aspettava, e forse neanche quella che le piaceva. Cristilde scrollò le spalle. Aveva smesso da tempo di preoccuparsi dei giudizi della gente.
Del resto, non piaceva neanche a lei quello che doveva fare.
– L’ultima volta che l’ho vista era dietro alla sua tenda. Di là – rispose infine Sigrun.
– Se la trovi, dille di venire, tra poco Lucius sforna i suoi dolcetti migliori – aggiunse Istrice, con uno dei suoi gran sorrisi.
Cristilde annuì, ringraziò e si diresse nella direzione indicata.
Astra sedeva su un tronco spezzato, la spada sulle ginocchia. Fissava un punto imprecisato davanti a sé, apparentemente ignara dell’allegra confusione che la circondava, affondata nei flutti di un passato che, a giudicare da come stringeva spasmodicamente l’elsa dello spadone, non doveva essere piacevoli.
“È incredibile come i ricordi dolci svaniscano con il tempo, lasciandoci solo vaghe sensazioni, mentre quelli brutti ci scavano dentro come topi alla ricerca di una via d’uscita.”
Cristilde si schiarì la voce per palesare la sua presenza. Astra sobbalzò, la spada quasi le cadde di mano. Nei suoi occhi albergava la paura di un animale braccato.
Impiegò qualche istante per metterla a fuoco. La cerusica attese pazientemente che tornasse presente a se stessa prima di parlare, andando dritta al punto.
– Ho quello che mi avevi chiesto alla cena – disse.
Un bagliore di puro sollievo illuminò il volto pallido di Astra. Si alzò e le andò incontro con evidente impazienza. – Davvero?
Cristilde estrasse dalla scarsella una boccetta e gliela porse. Le pasticche al suo interno tintinnarono quando l’altra l’afferrò, rigirandosela tra le dita.
– Dovrebbero bastarti per un po’, poi vedremo.
– Vedremo?
– Potrebbe rendersi necessario aggiustare il dosaggio – spiegò Cristilde alla sua occhiata interrogativa, per poi aggiungere – O potresti decidere di farne a meno.
Astra sospirò. – Non ce la faccio da sola.
– Non sei sola. Hai Antares e tutti i membri dello Spiantato pronti a tenderti la mano.
– Lo so – annuì la guerriera dai capelli rossi – Sono io che non riesco ad afferrarla. Per quanto di provi… semplicemente non ce la faccio. Ogni volta che chiudo gli occhi, sono di nuovo lì, sono la bambina insicura che ha lasciato morire tutti quanti… non voglio più aver paura!
Cristilde non replicò. Non le disse che la paura e il dolore erano parte dell’essere umani, che non aveva senso fuggirvi, che si poteva soltanto affrontarli, in un modo o nell’altro. Aveva già provato ad aiutare Astra.
E aveva fallito.
Tutti i suoi fallimenti erano una croce nel cuore.
– Dovresti raggiungere gli altri – consigliò.
Astra annuì, continuando a guardare la boccetta con gli occhi di un assetato nel mezzo del deserto. – Magari tra poco – concesse – Grazie.
Cristilde scrollò le spalle. – Non ringraziarmi. I farmaci non sono mai la soluzione.
“A volte non c’è soluzione e basta. E fa male. Se solo bastasse chiedere scusa, per liberarsi dai sensi di colpa…”
Quando tornò sui suoi passi, lo spiazzo intorno al fuoco centrale era in pieno fermento: Lucius aveva portato un vassoio enorme di biscotti, che era stato preso d’assalto dai presenti. Ne erano rimasti soltanto una manciata e d’impulso Cristilde si avvicinò e riuscì ad accaparrarsene uno, prima dell’arrivo della seconda ondata barbarica. Lo avvolse in un fazzoletto e si allontanò dalla ressa.
La quercia spezzata era al limitare della radura in cui erano stati allestiti gli accampamenti. Non fu difficile trovarla: un enorme tronco ormai secco e ricoperto da muschio ed edera, con due moncherini tesi verso l’alto e le radici ancora affondate nella terra, decisa a rimanervi ancorata fino alla morte e oltre.
Ottavia sedeva a gambe incrociate, nella sua solita posizione, la schiena premuta contro il legno. Accanto a lei, un barilotto di birra e le sagome afflosciate dei suoi compagni di bevuta, Aldo e Francisco, che ormai dovevano essere oltre la soglia della sobrietà da un bel pezzo.
Ottavia non era in condizioni migliori. Era impegnata in una fitta conversazione con il barilotto, che teneva abbracciato a sé. A giudicare dal suo tono dolce e dal sorriso sulle labbra, Cristilde intuì che stava parlando di nuovo con Amanita.
Quando la udì avvicinarsi, si drizzò subito e lottò per alzarsi in piedi, barcollante. Allungò la mano verso di lei, e: – Amanita? – domandò, speranzosa.
Cristilde non trovò il fiato per rispondere.
Un attimo. Strizzò gli occhi, e infine la riconobbe. La delusione nel suo sguardo era più di quello che la cerusica poteva sopportare.
– Ah, sei tu – borbottò, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco.
– Già – si limitò a rispondere Cristilde, mentre nella testa le risuonava l’eco della canzone.

“Là nelle sale dei cavalieri andati,
Millus parla ai suoi fantasmi…”

E anche Ottavia.
– Ti ho portato un dolcetto di Lucius – lo tese verso di lei – Stanno per finire, là al campo hanno l’appetito di un troll…
Ottavia sbuffò. – Che sei, la mia badante? Potevo andare a prenderlo da sola!
“Accomodati, se riesci ad arrivarci con le tue gambe”, pensò Cristilde. Ma a che valeva litigare con un’ubriaca?
“Di che mi lamento? Ormai dovrei aver imparato che non vale neanche esser gentili con un’ubriaca…”
– Lascialo lì – biascicò Aldo, scegliendo il momento giusto per riaversi dal suo coma etilico.
– Sì – fece eco Francisco – Se a lei non va, ce lo mangiamo noi. Grazie, Cristilde.
Beh, almeno qualcuno aveva il buon gusto di ringraziare. La cerusica posò il dolcetto sopra il barilotto e subito Ottavia si tese… ma era più interessata al fazzoletto che al suo contenuto. Lo sprimacciò delicatamente tra pollice e indice, sprofondando di nuovo nei fumi dell’alcol e del passato.
Cristilde non vide motivo per rimanere.
Si avviò per tornare al campo del Crepuscolo. Non aveva voglia di immergersi di nuovo nell’allegra confusione della festa, quindi decise di fare il giro lungo evitando di attraversare l’accampamento e passando attraverso la boscaglia.
Là il freddo era più intenso, l’erba bagnata dall’umidità che colava tra le fronde, abitate da una leggera foschia. Cristilde si strinse le mani intorno al corpo per trattenere il calore, il gelo che le mordeva le guance e la fronte, facendola dolere. L’aria era immobile, il vociare dal campo più ovattato, lontano, quasi in un’altra dimensione.
Colta da un’improvvisa inquietudine, la cerusica accelerò il passo.
La luce dei fuochi si era così affievolita tra la nebbia che non riusciva più a vederla al suo fianco. Fece per deviare e tornare sui suoi passi – ci manca di perdermi come un’idiota nel bosco! – quando scorse qualcosa con la coda dell’occhio.
Una sagoma tra gli alberi.
Mentre tutti i suoi sensi le gridavano di non farlo, si voltò.
Il muretto in pietra sbeccata, che pareva antica quanto le montagne, sbucava dalla foschia. La voragine nera e silenziosa come una bocca.
Un pozzo. E fino a lì niente di strano nella Scacchiera, sembravano aprirsi nella terra numerosi come funghi.
Eppure era pronta a giurare che non ci fosse, quando nel pomeriggio avevano pattugliato il perimetro prima di accamparsi.
Il dolore dietro alle tempie adesso si era fatto palese, adesso, pulsante come un secondo cuore. Con l’incapacità di controllare le proprie gambe tipica dei sogni, Cristilde si avvicinò al pozzo, un passo dopo l’altro, lento e faticoso come in mezzo al fango gelato. Il cuore in gola, sbirciò il nero occhio all’interno…
Poi era in ginocchio, la testa tra le mani che le scoppiava. Il dolore era così intenso da lasciarla senza fiato, boccheggiante, con il gelo che le tagliava il respiro.
Durò più a lungo, stavolta. Un’eternità. Quando finalmente la fitta si attenuò, permettendole di tornare a pensare, era riversa tra l’erba bagnata tra i tronchi delle querce. Il pozzo non si vedeva più da nessuna parte. Forse non c’era mai stato.
Cristilde ansimò, sentendosi di colpo svuotata. L’umidità le colava in sorsi liquidi nei polmoni e le vesti bagnate cominciavano a ghiacciarsi addosso. Intorno a lei, solo nebbiosa oscurità, e in lontananza di nuovo le voci dei compagni al campo.
Allegre.
Lontane.
Gli altri erano sempre lontani, quando aveva bisogno.
E dopo il dolore e il vuoto, venne la rabbia. Una rabbia assurda e cieca, che le riempì gli occhi di lacrime. Un suono a metà tra un grido e un singhiozzo le fuoriuscì dalla gola. Si raggomitolò su se stessa come un animale ferito e lo lasciò sfogare, perché non poteva fare altrimenti, perché faceva male da morire. Non poteva far altro che piangere, perché era stanca di essere forte, ogni giorno, forte anche per tutti gli altri. Dava tutte le sue energie per loro.
E non ne rimaneva più per lei.
C’era solo una persona che le aveva sempre offerto consolazione senza chiedere nulla in cambio. Con cui poteva sentirsi piccola e fragile, e scomparire nel suo caldo abbraccio.
– Rob…- invocò tra i singhiozzi.
Ma Rob non poteva sentirla. Non poteva abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene. Perché tutto bene non era andato proprio niente. Lui era morto. Era morto in quel campo gelato nelle Piane. Non sarebbe mai tornato da lei. Era morto, morto, morto…
Si sforzò di ricordarlo. Erano passati tanti anni, e tanta sofferenza, e se il volto era sbiadito rimaneva il tocco della sua gentilezza. Del suo amore che prendeva mille forme, senza bisogno di avere nome.
Il profumo delle gallette migliori – buone sarebbe state un eufemismo –, avvolte in un fazzoletto stropicciato, che le portava quando c’era il rancio e lei non aveva fatto in tempo ad accaparrarsene neanche una per curare qualche ferito.
Piccoli gesti di affetto che valevano più di mille parole.
A lungo Cristilde si era incolpata della sua morte. Se non gli avesse imposto di restare al campo, per evitargli una missione pericolosa e forse senza ritorno… e ironia della sorte, lei era tornata, per trovarlo ucciso durante un attacco a sorpresa dei nemici.
“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni…”
Eppure, in cuor suo aveva da tempo accettato che non fosse tutta colpa sua. Aveva solo cercato di salvare la persona che amava nel modo che le sembrava migliore in quel momento. Aveva fallito. Ma non era stata lei a trafiggergli il petto con la lancia.
L’aveva lasciato andare, accogliendo in sé il suo ricordo senza lasciarsi soffocare da esso.
Perché Ottavia non ci riusciva?
Si passò il dorso della mani sugli occhi per asciugarli e inspirò più volte, a fondo, per calmarsi. Lentamente, in qualche modo, riuscì a rimettere i propri pezzi a posto. Non era certa di aver fatto un buon lavoro, ma le avrebbe permesso di andare avanti un altro po’.
Si aggrappò al tronco di una quercia per sollevarsi. Le gambe erano fredde e intirizzite e i vestiti gelati le premevano addosso. La notte stava lasciando il posto al grigiore indistinto che precedeva l’alba. Dopo tutto quel tempo all’agghiaccio, considerò che un bel raffreddore non gliel’avrebbe risparmiato nessuno.
Era appena riuscita a rimettersi in piedi e fare qualche passo quando Feris sbucò dalla boscaglia, l’inseparabile arco a tracolla.
– Cristilde!
La cerusica provò un senso di sollievo e insieme rammarico che la raminga fosse giunta adesso che era di nuovo calma e padrona di sè.
– Feris, cosa c’è? Mica sarai avrai dormito su un albero anche stanotte? Non è la stagione giusta per restare all’aperto…
– Vi stavo cercando – rispose l’altra, con la sua brutta abitudine di darle del voi che ogni tanto riemergeva – Mi ha mandato Ottavia.
– Cosa è successo? – domandò subito Cristilde, mentre mille possibilità le scorrevano nella mente, una più preoccupante dell’altra: un attacco di troll al campo, una sortita degli imperiali, o, più probabile, uno dei ragazzi – od Ottavia stessa! – che aveva bevuto troppo e si era rotto l’osso del collo…
La sua espressione ansiosa non sfuggì alla raminga.
– Ottavia sta bene. Almeno, non peggio del solito – chiarì, intuendo la sua paura, per poi scuotere la testa e aggiungere: – Voi gettate amore in un buco nero…
Cristilde avrebbe voluto replicare. Negare con forza e decisione, e magari in un moto di orgoglio. Ma non era il tipo da negare l’ovvio.
– Portami da lei – ordinò.
In effetti, Ottavia non stava morendo, anche se tutto l’alcol che aveva in corpo avrebbe probabilmente fatto esplodere il fegato di una persona normale. Però stava vomitando anche l’anima dietro alla quercia spezzata ed era in uno stato così pietoso che di certo non sarebbe riuscita a lasciare il campo dello Spiantato con le sue gambe. Aldo e Francisco non erano in condizioni migliori per aiutarla.
Quando la cerusica si avvicinò, facendosi largo tra il capannello di masnadieri di Spiantato, Crepuscolo e Sussurro che si erano riuniti a osservare la scena pur tenendosi a distanza di sicurezza, Ottavia sollevò la testa e le puntò contro un indice accusatorio.
– Cris, dove eri finita?
Cristilde esitò, cogliendo l’eco di preoccupazione nella sua voce. Non era norma che lei si allontanasse da sola dal campo, per di più nel cuore della notte. La sua lunga assenza doveva essere stata notata e riportata all’Alfiere, non appena aveva chiesto di lei.
Perché il problema era che Ottavia teneva a lei, anche se a modo suo. Altrimenti sarebbe stato tutto più facile.
– Balthazar ha detto che faccio schifo e devo levarmi dai coglioni – proseguì la guerriera, inciampando nelle parole.
La cerusica inarcò un sopracciglio. – Sicura che abbia usato queste esatte parole?
Ottavia fece un gesto vago con la mano. – Bah, ha cianciato qualcosa tipo “amica mia, sei in condizioni così pessime che anche un maiale ti starebbe alla larga, e visto che a breve dovremo levare le tende, letteralmente, e metterci in cammino, gradirei tu tornassi al tuo accampamento a darti una sistemata, o per lo meno tu andassi a vomitare da un’altra parte” – precisò – Quel che ho detto io, no?
Cristilde sospirò. Ci sarebbe voluto un po’, e parecchie erbe medicamentose, per darle una “sistemata”. Si rivolse a Feris. – Potresti andare a prendere una brocca d’acqua? E chiamare Grizzly o qualcuno della sua stazza per darmi una mano…
– All’inferno, non ho intenzione di farmi trasportare come una bambina!
A dimostrarlo si sollevò reggendosi al barilotto vuoto, con il risultato di rovesciarlo e poi barcollare pericolosamente. Cristilde e Feris si affrettarono a sostenerla. Balthazar aveva ragione: l’Alfiere del Crepuscolo puzzava di alcol da far girare la testa.
Mentre tratteneva il respiro, la cerusica si accorse che accanto al barilotto era rimasto solo il fazzoletto vuoto.
– Alla fine il dolcetto l’hai mangiato tu o Francisco?
– Che ne so? – bofonchiò Ottavia – Mi ricordassi qualcosa, di stanotte…-.
– Oh, ma sei davvero felice di vivere così? – non potè fare a meno di domandare Cristilde in un moto di stizza.
– Sì – rispose l’altra, lo sguardo appannato – Non è così male: bere e uccidere imperiali, dimenticarsene, e poi ripartire daccapo…
Cristilde avrebbe voluto scuoterla, chiederle se quella era davvero la verità. C’era chi diceva che la verità apparteneva solo ai bambini e agli ubriachi. Ma dato che ricordava che la cuginetta Miralis era una bugiarda matricolata, quando si trattava di coprire qualche marachella con i genitori e gli altri parenti, dubitava che anche gli ubriachi fradici fossero particolarmente affidabili.
– E comunque che te ne frega?
– Sai che mi frega.
– Perché sei una sciocca che dovrebbe lasciar perdere una come me – sbottò Ottavia, e l’amarezza nel suo tono contrastava con la durezza sprezzante delle parole.
E la cerusica, finalmente, e amaramente, capì. Ottavia, forse senza una piena consapevolezza lei stessa di ciò, era scostante e sgradevole e priva di ogni riguardo verso il prossimo, e soprattutto verso coloro che le mostravano affetto, perché voleva essere sola. Voleva che tutti la lasciassero andare, e che così quando fosse giunto il momento avrebbe potuto farsi ammazzare, tristemente da sola, con la scusa di non avere niente da perdere.
Cristilde non aveva intenzione di rendersi complice di tutto ciò.
– Andiamo alla tenda – sancì, per poi aggiungere, a voce più bassa: – E comunque vada, ci sarà sempre nel mio cuore uno spazio per te.
Borbottando, Ottavia si lasciò trascinare via, mentre sopra la sua spalle Feris lanciava a Cristilde una lunga occhiata significativa.
“Gettate amore in un buco nero…”
Ma il suo era davvero amore, o soltanto il miraggio di un’espiazione?

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